chi cerca trova

giovedì 12 dicembre 2013

L’umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città

Pubblicato su  Macrame dicembre 2013

L’umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città
di Andrea Satta

Lo spazio è un concetto obiettivo. Esistono modi di intenderlo che presumono una consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si fa.
Questo vale per le persone e per le istituzioni.
Pordenone è una piccola città, da un estremo all’altro, in bicicletta, la si percorre in poche decine di minuti, per lungo e per largo. La città vera e propria è racchiusa in un ring, nome altisonante per pochi chilometri di circonvallazione interna, fuori, nel raggio di poco, ci si ritrova ancora in frazioni alternate di capannoni e campagna.
Eppure nonostante questa dimensione a volte i Pordenonesi vivono di parigina grandeur. Parcheggiano a pochi secondi dal bar dell’aperitivo, unico rito sociale rimasto in una città che da sempre mal sfrutta la sua capacità innovativa, culturale e sociale, si lamentano del costo dei parcheggi abitando a 5, 10 minuti a piedi dal corso.
Pordenone è una città ricca, anche se lo sta diventando sempre meno, ricca di luoghi pubblici di potenziale socialità che quotidianamente subiscono l’attacco di una mentalità protettiva e un po’ miope.
Le istituzioni pensano in grande, a volte grandissimo, e poi dimenticano il piccolo, piccolissimo.
Pensare, scrivere, leggere, suonare, dedicare, recitare, curare ed assistere.
Pordenone tende a usare l’infinito trasformando ciò che è piccolo in ciò che potrebbe divenire grande, dimenticando la città, la sua dimensione non certo infinita ma ben definita. A volte gli imperativi imperano: Legge! Pensa! Scrive! Dedica! quasi fosse un ordine morale per i cittadini che, invece colgono tutto ciò come hanno sempre fatto: partecipando con moderazione.
Le istituzioni sociali in questo non son diverse e portano in sè le ansie di un bambino bravo ma mingherlino.
A Pordenone non basta più pensare la città, Pordenone deve in qualche modo ripensare se stessa.
L’ultimo, in termini di tempo, episodio di difficoltà di visione politica futura è stato l’Ospedale, o meglio il Nuovo Ospedale. Dove sia giusto farlo, come e con che soldi sono argomenti di ordine politico regionale, provinciale e locale. Dove sia il giusto io, personalmente non lo so.
Una cosa però è chiara, anche a chi come me nel sociale lavora da più di 15 anni:  la discussione non ha preso la strada giusta.
Siamo ricaduti nell’effetto Great Complotto. Si parla di Pordenone come se fosse Londra. Però una cosa è certa: Pordenone potrebbe diventare come Londra… ma Londra non diventerà mai come Pordenone.
L’Ospedale serve, eccome se serve, a tutti e non solo ai cittadini. I soldi per farlo servono, e tanti. La volontà politica è essenziale, l’accordo politico no.
Ciò che servirebbe oggi, come sarebbe servita nel 1984 per la musica, è un po’ di umiltà, cercare il bene comune, e, come non mai, oggi ricostruire da zero le basi sociali, culturali e politiche di una città che si sta risvegliando, con un terribile mal di testa, dalla sbronza di benessere degli ultimi 40 anni.
Sembra mancare però l’Alka-seltzer, sembra mancare la capacità di sedersi e guardarsi in faccia e dirsi: forse era meglio non esagerare.
Passeggiando per il corso, desolatamente vuoto alle 9 di sera, sembra di camminare per una piccola Disneyland del nordest: negozi sfavillanti di merce costosa e invenduta, palazzi ristrutturati e pochi segni di (in)civiltà: nessun mozzicone per terra, bar chiusi, silenzio assordante.
Per strada la domenica, il sabato, vedi passeggiare gruppi di uomini e donne in carrozzina o tenuti per mano da altri uomini e donne con la faccia dei bravi ragazzi, alcuni, dei cattivi ragazzi altri. Sono il nostro futuro e il nostro presente che vogliamo non vedere, sono quel sommerso di lavoro di relazione e cura che ogni giorni, per poche lire, i professionisti del sociale fanno: educatori, operatori. La nomenclatura non cambia la sostanza.
La città è piena di piccoli luoghi di vita e speranza, centri di salute mentale, case di riposo, alloggi protetti. È piena di spazi con ragazzi difficili, o meglio con ragazzi diversamente facili, di luoghi con famiglie che si arrabattano scavando nei bidoni della Caritas, è piena di ragazzi sull'orlo di una crisi di identità, costretti a guardare al proprio futuro occupato da vecchi quarantenni ancora, e sempre di più, precari.
La città, le sue istituzioni, sono governate, come tutta l’Italia, quasi esclusivamente da una gerontocrazia giovanile.
Ecco cosa dovrebbe fare Pordenone: smettere di essere giovanile e diventare adulta.

Dovrebbe lasciare che a crescere siano i cittadini di ogni razza e colore (e non me ne vogliano i puristi del politicaly correct se uso razza), che a trasformare Pordenone da un deprimente status di parvenù ad un meraviglioso stato di consapevolezza, siano loro, i cittadini, di nuovo, nuovi.



DOMICILIARITA’ LEGGERA, UN’ALTERNATIVA ALLA SOLITUDINE


DOMICILIARITA’ LEGGERA, UN’ALTERNATIVA ALLA SOLITUDINE
Di Andrea Satta

Ormai da alcuni anni il sistema dei servizi per gli anziani s’interroga sulle possibili nuove soluzioni, adatte alle loro esigenze e alle ridotte disponibilità economiche del sistema pubblico, ribadendo la necessità di proseguire nella ricerca di soluzioni alternative ai grandi contenitori come RSA e case di riposo.
Il nuovo contesto sociale, il perdurare della crisi economica, la necessità di trovare continuamente nuove risorse in grado di sopperire ad un sistema di welfare sempre più in affanno, apre la possibilità di coprogettazione e cogestione di soluzioni alternative alla formula tradizionale, in linea con la nostra attuale esperienza di Rete, approfondendo le tematiche della microresidenzialità e della commistione pubblico-privata per la proposta di modelli alternativi.
Sicuramente ciò che non si può prevedere sono sviluppi alternativi alle istituzioni tradizionali senza una forte connessione territoriale, una capacità di progettazione innovativa e una capacità di fundraising presso il privato.
Risulta evidente come il pubblico e il privato dovrebbero colloquiare sullo stesso piano, riuscendo così a trovare soluzioni particolarmente vantaggiose, ma allo stesso tempo rispettose dei bisogni degli anziani.

La presenza di attori del privato profit che risultano essere oggi gli interlocutori più interessanti per le operazioni territoriali di questa portata, è particolarmente complessa di fronte ad un sistema di finanziamento non ancora in grado di valorizzare gli aspetti economici anche per le fondazioni bancarie, gli investitori privati o fondazioni di comunità. Questi soggetti sono interlocutori preferenziali per rispondere in modo efficace ai bisogni di cura anche per anziani autosufficienti, per piccole comunità in zone territorialmente svantaggiate e per soluzioni che possano intercettare il sempre più diffuso e preoccupante fenomeno dell’assistenza familiare.

lunedì 28 ottobre 2013

Il rimedio è la povertà

a leggerlo prima avrebbe risparmiato il numero dell'Ippogrifo Miseria e povertà

di Goffredo Parise (“Corriere della Sera”, 30 giugno 1974)

Questa volta non risponderò « ad personam », parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: « I poveri hanno sempre ragione », scritta alcuni mesi fa, e quest'altra: « Il rimedio (di tutto) è la povertà. Tornare indietro? Si, tornare indietro », scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima hanno scritto che sono «un comunista », per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di «consumare ».
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c'è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall'altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d'accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro Paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e cosi il senso più profondo e storico di « classe ». Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affannati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra « ideologia » nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell'acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è « comunismo », come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l'automobile, le motociclette, le famose e cretinissime « barche ».
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l'olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro Paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l'uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro Paese che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro Paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro Paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l'illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro Paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

II nostro Paese è un'enorme bottega di stracci non necessari (perché sono (stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli « etichettati » che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a «flatus vocis» ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani « comprano» ideologia al mercato dagli stracci ideologici cosi come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, ,per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l'hanno voluta disprezzare nell'euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro «qualità », la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c'è di tutto, vedi l'estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l'elite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all'opposizione. L'obbligo mondano impone la « boutique » ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del « grand marché aux puces » ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob ara questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più «corretta», come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell'Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l'enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro Paese.

Goffredo Parise

lunedì 23 settembre 2013

Un consorzio per promuovere nuovo welfare

Un consorzio per promuovere nuovo welfare
 di andrea satta
Macramè settembre 2013
Si è costituita lo scorso 4 aprile una nuova realtà cooperativa: il CONSORZIO VIVES. Nato con lo scopo dichiarato di affrontare le profonde trasformazioni in atto nelle politiche sociali, intende proporsi sul mercato in modo competitivo,efficace ed innovativo.Le promotrici Codess FVG,Duemilauno Agenzia Sociale e FAI sono fra le più importanti cooperative sociali del Friuli Venezia Giulia. Da circa 20 anni gestiscono servizi alla persona in ambito sociale, educativo, sanitario a favore di anziani, minori, prima infanzia, disabili, persone con disagio psichico, in tutto il territorio regionale e nel Veneto orientale.Complessivamente il Consorzio Vives rappresenta un aggregato di 1.250 soci-lavoratori, regolarmente inquadrati nel CCNL di riferimento, e intrattiene rapporti con oltre 50 Enti e Amministrazioni pubbliche ed offre i suoi servizi a fondazioni, associazioni e privati cittadini. Il loro volume aggregato nell'esercizio 2012, è stato di oltre 34 milioni di euro.Il Consorzio nasce da un concreto e diffuso radicamento su tutto il territorio regionale e intende agire in coerenza con i valori della cooperazione sia in Friuli Venezia Giulia sia nelle regioni del Nord Italia in cui sarà possibile intraprendere azioni di sviluppo. Diffondere il modello cooperativo,che le consorziate, nella propria specificità rappresentano, significa consolidare esempi di eccellenza e innovazione in ogni ambiti di servizi alla persona.Il Consorzio svilupperà le proprie azioni commerciali in un’ottica di progettazione innovativa e partecipata coniugando l’efficienza e la qualità dei servizi erogati con l’attenzione al territorio e la promozione di un welfare di comunità.Le Cooperative hanno costituito da oltre un anno la Rete per l’innovazione nel Sociale, strumento di sviluppo di progetti innovativi che offre un importante valore aggiunto sociale all'offerta del Consorzio Vives. L’integrazione delle politiche di sviluppo, delle progettazioni dedicate e delle sperimentazioni sul territorio, con le attività consortili attente alla qualità dei servizi, al rispetto dei contratti e alla sostenibilità delle proposte, sarà un nuovo modo di fare marketing sociale.L’obiettivo strategico del Consorzio è di andare a incidere direttamente sulla vita dei cittadini,attuando progetti di ricerca, innovazione e sperimentazione di nuovi servizi nel campo socio-assistenziale, educativo, sanitario, implementando buone prassi ed esperienze significative già avviate sul territorio regionale o nazionale.Il Consorzio ha prima di tutto cura dei propri lavoratori, dei socie delle socie delle Cooperative,riconoscendo in essi il valore fondante del lavoro di cura. Un’attenzione che diviene parametro imprescindibile per l’esecuzione e la gestione dei servizi.Il Consorzio, anche grazie alla Rete per l’innovazione nel sociale, intende in modo trasparente ed etico, promuovere e favorire l’emanazione di provvedimenti legislativi ed amministrativi di promozione e di sostegno alla cooperazione, ed insieme operare per una rivisitazione del sistema di welfare promuovendo interventi sul territorio che possano coinvolgere la comunità, le istituzioni ed il privato, sociale e non.Il Consorzio è iscritto all'albo regionale delle cooperative Sociali dal 6 giugno ed è completamente operativo.
 Il Consiglio di amministrazione è composto dai Presidenti delle tre cooperative associate Fabio Fedrigo (FAI), Franco Fullin (Codess FVG) e Felicitas Kresimon (Duemilauno Agenzia Sociale). Il CDA è presieduto da Franco Fullin. L’Ufficio Ricerca e Sviluppo è composto da Andrea Satta, Coordinatore della Rete per l’Innovazione nel sociale, e Cristina Benes, coordinatrice d’area di Duemilauno Agenzia Sociale.

La comunità è un bicchiere mezzo pieno

La comunità  è un bicchiere mezzo pieno
di andrea satta


Definire ciò che è giusto e ciò che è utile nel sociale comporta sempre ri-definire il nostro modo di essere all'interno della comunità. Questo vale prima di tutto per le istituzioni, per gli operatori sociali ma anche, a volte ce ne dimentichiamo, per ogni cittadino.Entrambe le parole sono giuste ed utili per definire una qualsiasi strategia che voglia modificare radicalmente il sistema del welfare locale. Si tratta di pensare al nostro futuro senza che a farne le spese sia il nostro oggi. Nel lavoro di progettazione sociale calcolare le ricadute sulla lunga durata è un’operazione complessa. La materia su cui prevedere le conseguenze è estremamente pericolosa: l’uomo. Di esso possiamo calcolare l’altezza, il peso, la capacità cranica, il rischio di insorgere di malattie, ma non riusciremo mai a calco-lare come ciò che togliamo oggi creerà un’assenza domani.Un’assenza che si ripercuote non solo sull'offerta dei servizi ma che ricade sui corpi, le relazioni e il vivere in comunità.La comunità è formata sempre e unicamente da individui e non è un soggetto terzo dal tratto etico e morale. Per questo pensarla aprioristicamente e giuridicamente come un luogo perfettibile da modificare porta a immaginare comunità “perfette” ma totali. Da moltissimi anni si discute sull'istituzione totale e la si critica. Oggi a trenta, quarant'anni di distanza si è passati da istituzione a comunità totale, credendo che questo sia sviluppo, in realtà ricadendo inconsapevolmente su un modello di welfare di comunità in voga negli anni trenta del secolo scorso. Il vero problema oggi è riconoscere “le comunità” e solo dopo, individuare un welfare adatto ad esse. Esiste una comunità ideale che alimenta se stessa cadendo nello stesso errore delle istituzioni, come in anni non sospetti ricordava Ivan Illich, parlando della medicina che crea le malattie e della scuola che crea l’ignoranza. Questo paradosso si sta riversando nell'idealizzazione di una società in cui l’integrazione non ha bisogno di cura e  la comunità crea sempre necessariamente benessere.
Far parte di questa comunità ideale, fatta di uomini e donne accoglienti, integranti, partecipanti e solidali, crea una meravigliosa dipendenza. In questa comunità si sta bene. Peccato che non esista. Immaginare l’inserimento di persone espulse dalla società per le loro debolezze come processo virtuoso a carico della stessa società che li ha espulsi è come minimo presuntuoso. Pensare altrimenti a una società in grado d’integrare al suo interno il singolo nel rispetto delle sue peculiarità significa, offrire ad ognuno gli strumenti adatti ed efficaci a migliorare la qualità della vita.
Viviamo la peggior crisi degli ultimi cinquant’anni e facciamo finta che la comunità sia ancora in grado di sopportare il peso, l’onere e il costo della difficoltà pubblica di gestire il welfare.
Un approccio etico, partecipativo, ed efficiente può nascondere un sistema di welfare ideale in grado solo di perpetuare se stesso, in condizioni di protezione e tutela. Quella comunità accogliente, integrante, partecipata e solidale, se mai è esistita, oggi combatte quotidianamente con l’indifferenza, l’omologazione e l’intolleranza, lasciando nella marginalità proprio quelli che più hanno bisogno di essere integrati.
Al di là di ogni retorica restituire la delega politica e assistenziale alla comunità, sperando che essa oggi sia in grado di sopportarne oneri, onori e denari è utopistico. La politica ha la delega dei cittadini per amministrare, attraverso le tasse, la cosa pubblica, e con il paravento della spending review e della casta, si deresponsabilizza e abbandona la comunità, ma sarebbe più corretto dire quella parte più fragile della comunità, ad un’autogestione priva di mezzi, di capacità e di risorse finanziarie.  
Il welfare di comunità nasconde dietro la sua ragionevolezza etica e la sua morale partecipativa una visione del mondo totalizzante. In realtà è l’intera comunità ad essere fragile e allo stesso tempo frazionata in un disagio sempre più individuale. Il ruolo del terzo settore, dei servizi, delle istituzioni, deve essere di risposta alla quotidianità, attraverso servizi che ricostruiscano il senso di appartenenza, di dignità e di autodeterminazione, utilizzando tutto ciò che già esiste per rinforzare la comunità e creare nuovamente i presupposti perché essa possa diventare finalmente accogliente.

lunedì 9 settembre 2013

Come nascono le idee

Come nascono le idee 
Edoardo Boncinelli 
Editori Laterza, 2010
Collana Economica Laterza I Libri del Festival della mente
Una buona idea è quella di prendere Come nascono le Idee e leggerlo tutto di un fiato.
Boncinelli, genetista e fisico, racconta con leggerezza come il nostro mondo sia percepito, elaborato e raccontato grazie ad un infinito numero di connessioni. In realtà uno scienziato non parlerebbe mai di infinito di fronte ad un sistema certo complesso, ma circoscritto, analizzabile. Per un normale lettore, a cui è destinato il libro, il mondo della neurobiologia è talmente ampio da risultare infinito.
Una scrittura semplice e precisa, come solo gli scienziati sanno fare, racconta fra filosofi a, psicologia e biologia come l’idea non sia mai un colpo di genio ma sempre frutto di un processo complesso, anche se dura un attimo.
La coscienza, la consapevolezza sembrano finalmente acquisire sostanza divenendo il modo con cui l’uomo ha imparato a differenziarsi dal resto del mondo e non più il modo con cui giudica. Infine la creatività, parola il cui solo suono evoca inutili banalità, inizia ad aver un senso compiuto distinguendosi dal raziocinio ma anche dalla follia e dal genio. Insomma scrivere questo libro è stata una buona idea, leggerlo anche.

PSICHIATRIA E NAZISMO

PSICHIATRIA E NAZISMO
I deportati ebraici dagli ospedali psichiatrici di Venezia
Angelo Lallo
Lorenzo Toresini
Psichiatria e nazismo
La deportazione ebraica dagli ospedali
psichiatrici di Venezia nell’ottobre 1944
Editore Nuova Dimensione, 2001
La storia è fatta di piccole malvagità quotidiane, di soprusi inutili, tanto più inutili quanto più odiosi. Di fronte a San Marco, a Venezia, ci sono due isole: San Servolo e San Clemente.
Sono due manicomi, o meglio lo sono stati, e sono stati teatri di una inutile tragedia.
Ogni tragedia è enorme e la storia di sette o otto, il numero poco importa, ebrei internati nelle due isole è solo uno degli infiniti tasselli di dolore che compongono la storia della Shoah.
Ottobre 1944: anche a Venezia diviene luogo di applicazione di quello che banalmente e burocraticamente veniva chiamato
Endlösung der Judenfrage (soluzione finale della questione ebraica) lasciando all’eufemismo un significato sinistro. Psichiatria e nazismo racconta poco, pochissimo, racconta di povere vite di uomini e donne deportati e uccisi per il solo peccato di essere altri, doppiamente altri: ebrei e pazzi. Eppure racconta tutto, tutto quello che si deve sapere per comprendere come alcune righe di diagnosi e appunti medici possano rivelare una vita intera e, come insegna Primo Levi, narrare l’intera umanità. Purtroppo questa Storia non ha nessun lieto fine, come quasi sempre avviene, e non è accaduto che chi salva una vita salva il mondo intero.
Uomini e donne senza nome e cognome, così hanno scelto gli autori, non esistono più, il loro mondo non è stato salvato.

Opinioni degli stakeholder

Opinioni degli stakeholder, una direzione da intraprendere
di Andrea Satta, progettista FAI la cosa giusta


Il Progetto FAI la cosa giusta ha chiesto ai dirigenti di raccontarsi e di raccontare cosa significhi provare a dare risposte alle donne in rientro dalla maternità, alle famiglie che lavorano in Cooperativa. Otto interviste, otto opinioni, otto approcci che oggi, a mesi di distanza, appaiono premonitori di un’interesse che, nella realtà dell’agire quotidiano, è già diventata buona prassi. La cura delle relazione e l’ascolto dei bisogni delle socie, in un contesto delicato, complesso e coinvolgente, era ed è la preoccupazione prima di chi deve dirigere, coordinare, facilitare la routine degli operatori. Tutti i giorni la cooperativa si confronta con la malattia, la disabilità, la vecchiaia, il distacco, il fine vita, ed anche la gioia, l’affetto, la riconoscenza di chi riceve le cure, l’assistenza, le parole e il conforto degli operatori. Gli otto dirigenti sono consapevoli e in un qualche modo preoccupati di questi aspetti e di fronte alle domande sono stati molto disponibili e incuriositi, Il loro è un punto di vista particolare, volutamente individuale, basato sull’esperienza personale, sulla formazione e sul lavoro in cooperazione. Il lavoro di ascolto e sintesi dei lunghi dialoghi ha costruito un quadro ricco e sfaccettato in cui le preoccupazioni quotidiani di gestione e le visioni strategiche si sono alternate in una forma colloquio curioso e innovativo. La conciliazione è risoluzione dei problemi nella prospettiva del funzionamento della struttura, questa è la visione evidenziata dai coordinatori delle strutture e dai referenti di area cogliendo, nel progetto Family Friendly, la possibilità di rendere più fluida ed efficiente la gestione delle relazioni e delle dinamiche quotidiane, fatte di richieste orarie, turni, malattie e famiglie. Ma è anche risoluzione dei problemi in funzione di un cambiamento aziendale. Così come hanno ben descritto ed evidenziato chi nella cooperativa si occupa direttamente di progettazione, comunicazione e formazione. Questa doppia visione si fonde perfettamente in quell’evoluzione, informazione e accompagnamento, che la Cooperativa FAI ha intrapreso proponendo la creazione dello sportello FAI la cosa giusta.Ognuno porta con sé la propria storia, professionale e personale, ed è nella Storia della Cooperativa che ci si ritrova a condividere, discutere e risolvere la quotidianità della conciliazione. Quando abbiamo iniziato...spesso alle domande i nostri interlocutori hanno risposto iniziando così, dando forza e peso alla crescita, alla volontà di chi partendo da pochissimo ha creato una delle eccellenze di cooperazione sociale in provincia.Oggi i dirigenti si trovano a cercare nel lavoro sociale quel precario equilibrio fra chi coinvolto direttamente nei problemi e chi deve trovare e condividere una visione strategica di lungo periodo.Il lavoro sociale è femminile? Beh... guardati attorno! Così scherzando, anche se solo per un attimo, una delle questioni più scivolose del ambito del lavoro di cura, i dirigenti hanno colto una delle maggiori contraddizioni del sistema, cooperativo incluso, sociale: la diversità fra i generi, gli stereotipi e allo stesso tempo la forza positiva delle differenze.Nel sociale gli uomini stanno ai piani alti e le donne... anche ma dopo aver faticato di più! Con questa dolce amara considerazione abbiamo chiuso un primo scambio di opinioni, che al di là della apparente leggerezza ha fornito al progetto la legittimazione, ha fatto emergere l’importanza del lavoro d’equipe, delle modalità di risoluzione dei problemi, dell’importanza dell’informazione, della formazione e della continua attenzione sul tema. Insomma, per dirla con una frase di Hugo Von Hofmannsthal, la vita è integrale conciliazione dell’inconciliabile.

venerdì 6 settembre 2013

Radical Chic - recensione

Tom Wolfe
Radical chic
Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto
Castelvecchi 2005

Più riguardo a Radical chic

Ci sono delle giornate in cui ti senti depresso, in cui vorresti che il peso della quotidianità fosse sommerso dalla leggerezza, in cui la crisi, la politica fossero annullati da un ironico sorriso.
Se siete in quelle giornate potete leggervi i due racconti di Tom Wolfe racchiusi sotto il titolo Radical Chic. Siamo negli anni sessanta, in una strepitosa New York, nel pieno del fermento giovanile, in quello che banalmente chiamiamo '68. Le Black Panther compaiono nel panorama americano dopo anni di lotte sui diritti civili, dopo Martin  Luther King, dopo Malcom  X, dopo Kennedy e prima di Reagan.
Essere   liberal   era   uno   status   simbol,   appoggiare   cause   sociali,   gruppi rivoluzionari era, ed è, un ottimo modo per lavarsi la coscienza. É così che nascono   i   radical   chic.   In   un   vortice   paradossale   di   discorsi   rivoluzionari, tartine al caviale e champagne, domestici bianchi e ospiti negri tutta l'ipocrisia del bel mondo occidentale si palesa in un crescendo di incomprensioni e nuovi party dedicati a nuove cause da sostenere.
Se poi la giornata è ancora lunga ed il libro è breve e avete ancora un po' di depressione dal mondo circostante, leggete il secondo racconto.
I   Mau   Mau,   ultimi   guerriglieri   di   un   colonialismo   morente,   diventano paradigmatici del metodo nonviolento. Siamo in California, punta avanzata del '68   americano,   piano   degli   interventi   statali   per   combattere   la   povertà, l'esclusione sociale, la perdita di lavoro e la ghettizzazione. Siamo un po' come oggi ma con più speranza.
Qui i veri protagonisti sono i funzionari statali, i parapalle, che devono erogare posti di lavoro, creare leader di comunità nera, essere i mediatori fra comunità dei ghetti e Stato.
Anche   in   questo   caso   l'apparenza   inganna   e   i  disperati  sono   degli   abili manipolatori   dei   pregiudizi   che   subiscono.   Si   presentano   cattivi   e   violenti, senza mai alzare un dito ovviamente, bastano sguardi, atteggiamenti, vestiti e colore della pelle. La paura del parapalle bianco è assicurata, così come il posto estivo a spese del governo. Il libro finisce con un magistrale colpo di teatro: una masnada di bambini urlanti e un leader vestito da magnaccia...
Buona lettura.

Articoli di Conciliazione Casarsese

Sportello Informadonna nuova iniziativa a Casarsa
Intervista a Ingrid Culos, consigliera Comunale del Comune di Casarsa con delega alle Pari Opportunità

a cura di andrea Satta

Pubblicato su Macramè, Aprile 2012

La consigliera comunale Ingrid Culos ci racconta la nascita dello Sportello Informadonna del Comune di Casarsa, finanziato nel 2012 dalla Regione.
Il progetto originario, Donne insieme ha come obiettivo l’integrazione delle donne di nuova immigrazione e italiane attraverso la promozione di luoghi di scambio e di aggregazione. Come è nata l’idea di sostenere un percorso dedicato alle donne?
L’amministrazione comunale ha sempre pensato che le politiche di parità riducano i costi sociali ed economici e che siano un incentivo allo sviluppo locale.
Casarsa è un comune molto sensibile alle tematiche che riguardano il sostegno alle donne e alla famiglia più in generale.
Sono numerosi i progetti messi in campo in tal senso negli ultimi anni e la nuova amministrazione intende offrire un punto di riferimento informativo e progettuale rappresentato dallo Sportello Informadonna.
Come è avvenuto il coinvolgimento delle realtà locali in un territorio ricco di associazionismo?
Le associazioni, le cooperative e le organizzazioni di familiari sono sempre state coinvolte anche grazie all’Osservatorio Sociale nella lettura dei bisogni del territorio e nella proposta di nuove opportunità.
Come ritieni che l’idea di uno sportello aziendale possa integrarsi in questo contesto?
Conosco da tempo il lavoro dello Sportello FAI e penso abbia caratteristiche molto simili al nostro progetto. Si tratta di attività di sostegno, non solo occupazionale, ma anche su questioni legate alla famiglia e alle offerte territoriali. A questo abbiamo aggiunto un’attenzione particolare a situazioni più difficili come ad esempio il mobbing, i centri antiviolenza e il sostegno alle famiglie in difficoltà. Per le persone sarà possibile avere un primo contatto per essere avviate ai servizi di competenza.
Sia il nostro progetto che lo sportello hanno coinvolto la Consigliera di Parità della Provincia Chiara Cristini, come pensi che possa svilupparsi in futuro questa collaborazione?
La figura della Consigliera di Parità, che ha una forte attenzione al mondo del mercato del lavoro, risulta estremamente importante in una situazione di crisi in cui il benessere delle donne passa soprattutto attraverso l’enpowerment, cioè la capacità di attivarsi e di sviluppare le proprie potenzialità.
Gli sportelli come questi, sono luoghi in cui le donne possono ricevere informazione, e allo stesso tempo acquisire consapevolezza. Auspichiamo che tutti insieme si possa creare una rete ampia a sostegno di questo tipo di iniziative, a partire dai comuni limitrofi e associazioni, e che in futuro questo modello possa diventare buona prassi per altre amministrazioni locali.

Conciliazione diffusa Dallo Sportello Conciliazione allo Sportello Informadonna 
di andrea Satta e Elisa Giuseppin

Le buone prassi diventano tali solo quando si diffondono.
Grazie a questo assunto e grazie alla disponibilità di Ingrid Culos, consigliere del Comune di Casarsa della Delizia con delega alle Politiche Giovanili e Pari Opportunità, lo sportello Conciliazione Family Friendly FAI
potrà offrire la sua esperienza al Progetto Donne insieme.
Questo progetto prevede l’apertura di uno Sportello Informadonna. Elisa Giuseppin, referente per il rogetto, predisporrà le azioni di front office informativo, di formazione, di condivisione di banca dati e di consulenza personalizzata, sulle tematiche di conciliazione, pari opportunità, famiglia, gender mainstreaming.
Il coinvolgimento delle associazioni e delle cooperative sarà parte integrante del percorso, in particolare per quelle che hanno già attivato azioni dedicate alle donne.
La rilevazione dei bisogni degli stakeholder locali ha evidenziato come la partecipazione di tutte le famiglie e l’integrazione con i servizi esistenti, sia prioritaria per la sostenibilità del progetto.
Mutuando un’esperienza aziendale, si è voluto dare sostanza più che con una semplice convenzione, con un vero e proprio lavoro integrato tra amministrazione pubblica e privato sociale. Questo modello si va diffondendo a macchia di leopardo sul territorio friulano anche in settori apparentemente molto istituzionalizzati. Non si tratta di una delega in bianco da parte delle amministrazioni, ma ad una vera e propria coprogettazione, che ha coinvolto fin dalla fase ideativa la cittadinanza. FAI ha condiviso questa nuova opportunità per diffondere un metodo di lavoro attento allo sviluppo di comunità ed anche un nuovo modo di fare impresa.
Lo Sportello Informadonna è aperto il mercoledì pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00, presso Palazzo De Lorenzi Brinis, via Stazione 2, Casarsa della Delizia (PN). Telefono 0434 873937, email sportellodonnacasarsa@gmail.com, blog informadonnacasarsa.blogspot.it
S

Nido Diffuso

Nido Diffuso
Modello innovativo per un servizio educativo domiciliare

Pubblicato su Macramè, Aprile 2012

di andrea Satta
FAI ha intrapreso, insieme a Codess FVG e Duemilauno Agenzia Sociale, un innovativo percorso dedicato alla prima infanzia: il Nido Diffuso. Si tratta di un nuovo modo di fare welfare locale che risponde ai bisogni dei cittadini ottimizzando le risorse, aumentando le possibilità di scelta e, contemporaneamente, offrendo alternative personalizzate per le famiglie. La proposta Nido Diffuso applica tre principi base: la territorialità
ovvero la copertura dell’intero territorio regionale, la sostenibilità ovvero la capacità di calcolare i costi benefici dal punto di vista economico, professionale, formativo, occupazionale, ed infine la cooperazione ovvero la capacità di utilizzare il proprio know-how, l’esperienza intersettoriale e la capacità di rogettazione. Il sistema cooperativo con il suo alto valore sociale può offrire come valore aggiunto: il riconoscimento da parte della comunità, la qualità del servizio, l’attenzione al lavoratore e la responsabilità sociale d’impresa.
I tre valori del progetto sono: la famiglia, la cooperazione e la fiducia. I servizi socio-educativi per la prima infanzia sono luoghi di promozione del benessere e dell’agio per bambine e bambini e svolgono n’importante
funzione di sostegno alla genitorialità e alla conciliazione tra i tempi del lavoro e della famiglia.
Il Nido Diffuso è infatti in grado di sostenere, legittimare, organizzare e connettere le strutture del privato sociale, impegnate nella progettazione e nell’offerta dei servizi prima infanzia, con il mondo dell’associazionismo familiare.
La fiducia reciproca, fra soggetto gestore, famiglie e istituzioni è la base etica su cui il modello fonda la sua forza. L’offerta del servizio tiene conto sia
della gradualità che della flessibilità necessaria per posizionarsi sul mercato, con l’intento di
calmierare i costi per le famiglie e al contempo tutelare la progettazione pedagogica, disincentivando la formula baby parking ed offrendo percorsi e attività adatte alla crescita dei bambini.
La Rete offrirà pacchetti flessibili e differenziati per ogni struttura prevedendo alternative personalizzate all’interno dell’intero sistema integrato. Il servizio è rivolto a bambini e bambine dai 3 ai 36 mesi, alle loro famiglie ed alle associazioni che le rappresentano. Inoltre il servizio intende offrire un’opportunità occupazionale per donne in possesso dei titoli previsti e della disponibilità del domicilio idoneo. Il 19 dicembre la Rete per l’Innovazione nel Sociale ha presentato con l’Assessore Roberto Molinaro, presso la sede della Regione FVG di Udine, il progetto Nido Diffuso. È iniziata una nuova avventura.

Il vicolo Cieco

Il vicolo cieco 
La nonrivoluzione italiana

Pubbilcato su Macramè, Aprile 2012

L’Italia è il Paese delle rivoluzioni annunciate.
Ogni governo promette riforme epocali che spesso nascondono semplici e controrivoluzionarie manovre finanziarie. Il sistema Italia, ammesso che si possa definire sistema, mantiene una stratificazione normativa che applica regi decreti e leggi del ventennio fascista.
La definizione di un sistema politico, o di un regime se non diamo un’accezione negativa alla parola, deve essere in grado di definire limiti, o semplicemente diritti e doveri sia per chi le leggi deve applicarle sia per
chi deve rispettarle.
L’Italia è da questo punto di vista quello che da studente mi sembrava l’aspetto più anarchico del greco antico: le regole che devi studiare meglio sono le eccezioni.
Abbiamo delle regole ma ciò che ci guida è l’eccezione alla regola.
Non credo che la vera rivoluzione sia creare regole ma semplicemente uscire dal cul de sac dove novanta anni di regimi dittatoriali e democratici ci hanno portato.
Siamo veramente in un vicolo chiuso?
Prendiamo il nostro sistema di welfare. La costituzione lo vorrebbe universalistico: l’articolo 3 dice che siamo tutti uguali, e solidaristico (art.2), ma la riforma del Titolo V ha introdotto un mini federalismo attraverso la sussidiarietà, ovvero le regioni più ricche aiutano quelle più povere.
Quindi l’Italia è diventata un po’ più federalista e il suo welfare un po’ meno centralista. Detto così verrebbe da dire che, finalmente, una vera riforma è iniziata. Eppure l’incertezza regna sovrana: siamo federalisti nell’erogazione degli interventi ma centralisti nella distribuzione delle risorse necessarie al funzionamento.
Così verrebbe da pensare che se siamo tutti uguali curarsi a Orotelli è uguale che curarsi a Villa Santina, che essere assistito da ricco è uguale che essere assistito da povero.
L’Italia sembra un bambino indeciso, nonostante stia lentamente raggiungendo la maturità democratica, ovvero abbia raggiunto cent’anni o poco più di democrazia imperfetta.
Ogni volta che ci si pone la domanda dove stiamo andando siamo incerti, come un bambino capriccioso: vorrei il sistema universalistico ma anche selettivo, le pensioni statali ma anche i fondi integrativi, il lavoro fisso ma anche flessibile, gli ospedali pubblici ma a pagamento, le scuole pubbliche ma a carico dei genitori...
Siamo sempre un po’ comunisti con forti propensioni al liberalismo, siamo un po’ liberali ma con grande attenzione al consociativismo, siamo familisti per le famiglie altrui e libertini per le nostre, siamo generosi con il terzo mondo e violenti con i rom italiani, siamo federalisti quando si tratta di ricevere soldi e centralisti
quando si tratta di non darli ad altre regioni, siamo autonomisti se ricchi e nazionalisti se poveri (e incredibilmente anche viceversa). Cosa ci aspetta nei prossimi anni? Una sintesi tutta italiana dei modelli politici europei (e non solo). Oppure, come sembra prospettarsi anche dopo questi primi mesi dell’anno, torneremo a parlare di riforme epocali, di pericoli rossi, arancioni e blu, di colpe altrui e ente parlare
del nostro sistema statuale, ha bisogno di chiarezza: o di qua o di là. Il vero problema è che non si sa cosa sia il qua ed il là.
Forse almeno questo potremmo chiederlo.

giovedì 14 marzo 2013

Uno spettro si aggira per Riva del Garda: lo spettro dell'Innovazione.


Uno spettro si aggira per Riva del Garda: lo spettro dell'Innovazione.
Resoconto di una grande speranza.
Workshop sull'innovazione sociale di Iris Network
Andrea Satta, Coordinatore Rete d’Impresa

L'innovazione aleggia come un fantasma fra le sale di Riva del Garda. Tutti ne parlano, tutti la cercano, tutti vorrebbero vederla seduta al loro tavolo.

In questi ultimi mesi l'innovazione è diventata la parola d'ordine, tutto è diventato SMART, ICT, VENTURE CAPITAL, STARTUP, CLOUD, AAL... Una sbornia che sarà difficile da smaltire e che ci lascerà un gran mal di testa.
Il decimo Workshop di IRIS Network ha deciso di puntare tutto sull'innovazione, al limite di tempo massimo per la preiscrizione al nuovo torneo o tornata di fondi Europei e nazionali.
Senza innovazione non si innova, verrebbe da dire tautologicamente, ma cosa questo significhi per il sociale è assai difficile a dirsi: diventare tecnologici o diventare altro.
Stefano Borzaga nel suo intervento ha detto una cosa lapalissiana a cui probabilmente tutti noi, che con il welfare abbiamo a che fare, dobbiamo adeguarci: il mercato e il capitalismo non sono la stessa cosa.
La Cooperazione Sociale in Italia si immedesima con l'impresa sociale creando fin dall'inizio quel grande fraintendimento in cui impresa appare quasi una parola da lasciare in secondo piano, perché ha a che fare prima con capitale che con mercato. Ed è qui che si vuol far passare il cammello nella cruna (anche se si trattava di una gomena): fare impresa in un altro mercato, in un'altra società. É tutto nascosto nel suffisso altro (AltroMercato, Altraeconomia) come a volersi distinguere dai cattivi, quelli dell'Economia, della Finanza, del Capitale.
Il rapporto di IRIS Network, e soprattutto il clima del convegno, hanno però evidenziato che le condizioni non sono più tali per creare altro, per distinguere fra buoni e cattivi. Bisogna entrare nel mercato (quello unico Europeo prima di tutto) portando quel IVA sociale in cui la I sta per Innovazione.
Torniamo dunque alla parola magica. Luca Fazi, sempre acuto e previdente, ci ricorda che esistono almeno quattro tipi di innovazioni: incrementale, espansiva, evolutiva e totale.
Tutti noi abbiamo sbirciato le slide che accompagnavano l'intervento finale e abbiamo sogghignato pensando ai concorrenti espansivi, e lo stesso hanno fatto di noi i concorrenti. Insomma tutti avremmo voluto poter dire che siamo innovativi totaliL'innovazione totale [...] implica la sperimentazione di nuovi modi di lavorare e organizzare i servizi fornendo risposte a bisogni prima non considerati.”
Come non sentirsi coinvolti e adatti a tale approccio, come non pensare ad un altro modo di essere attori sociali, pro-attivi, propositivi, innovativi. In una parola SMART. Gli acronimi si sprecano e SMART è divenuta la parola senza la quale non si può fare nulla. È l'integrazione dei primi anni 2000 ed il glocal della fine dei '90.
Per essere smart non basta avere la tecnologia, bisogna che qualcosa o qualcuno sostenga l'utilizzo degli strumenti ICT, bisogna che affianco al tablet collegato inclouding ci sia una noiosissima e utilissima capacità di ripensare alle proprie aziende, al proprio sistema di governance, alla propria mission. Insomma ad un numero notevole (eccessivo) di termini inglesi.
Il mercato, dalla ventosa Riva del Garda, appare un grande fratello che tutto controlla e tutto governa, un sistema da scardinare a favore di un mondo migliore. Ma è veramente così? Non pecchiamo noi (co)operatori di Ybris nel voler andare contro gli dei? Il mercato non è un golem malvagio, non è un qualcosa altro da noi, ma è il modo con cui effettuiamo i nostri scambi, le nostre relazioni economiche. Se solo comprendessimo che un altro mercato è sempre possibile, perché gli attori di questo mercato siamo noi. La vera novità sarebbe accettarne le regole senza ipocrisie e cambiarle da soggetti autorizzati a farlo, ovvero da importanti, fondamentali soggetti economici.
Ho l'impressione che la vera innovazione passi proprio per quell'IVA di cui parlavo prima, da quella percentuale di Innovazione che mettiamo nel nostro agire economico, da quella capacità di indirizzare le scelte della società verso transazioni economiche (e relazionali, ammesso che ci sia differenza) che definiamo etiche o, come preferisco, responsabili.
Il concetto di responsabilità deve andar prima di quello di eticità, le scelte sono etiche se sono responsabili, se hanno la capacità di far corrispondere la risposta al bisogno e di farlo senza che questo crei un nuovo bisogno peggiore del primo.
L'innovazione passa dunque attraverso la responsabilità, e non è un caso che senza Corporate Social Responsability il sistema non regga, e la responsabilità passa attraverso il cambiamento, l'autodeterminazione e la consapevolezza. In tutto questo la tecnologia a cosa serve? Come twitta Graziano Maino #mainograz pensa le tecnologie non sono l'opposto del senso. Non c'è innovazione che non abbia componenti tecnologiche. Vuol dire comprendere la necessità di utilizzare gli strumenti tecnologici per attivare, sostenere, introdurre processi di innovazione sociale. Ma l'idea, la formula, l'alchimia che trasforma la cooperazione sociale in Impresa sociale innovativa, non è nel mezzo che utilizziamo ma nel fine che vogliamo raggiungere con la tecnologia.
Adesso bisogna solo trovare il senso.

Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione.


Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione. Bastano tre parole per essere risorsa partecipativa?
Andrea Satta

Le parole hanno significato per quel che attuano.
I nuovi Piani di Zona che ogni Ambito Distrettuale dovrà predisporre sono una grande opportunità e insieme un enorme rischio.
Esistono, infatti, strumenti che appaiono fin dal primo momento funzionali ai processi di pianificazione territoriale, esistono altri che hanno bisogno di una lunga gestazione e spesso rischiano di nascere quando i fratelli sono già troppo grandi e camminano con le proprie gambe. Abbiamo visto come il terzo settore, la cooperazione, ma anche la politica a volte, abbia la capacità di affrontare la contingenza e di produrre risposte immediate ed idonee. Certo sono figli illegittimi (senza legittimità normativa) ma sono pur sempre figli.

Il welfare, parola inglese che mutuiamo con estrema leggerezza, è un sistema complesso, arzigogolato, intrecciato. Il Piano di Zona vorrebbe ordinarlo, rendere il sistema più efficiente, efficace ed economicamente sostenibile. Le tre E sono sempre più presenti e, oggi con la crisi che travolge tutto e tutti, la terza E di economia diviene più che una speranza una minaccia.
Ci sono strumenti, anche se la terminologia sociale e istituzionale può essere fuorviante per i non addetti ai lavori, che dovrebbero fornire il modo per andare ad erogare servizi, interventi, finanziamenti. Il Piano di Zona è lo strumento principe di questo complesso e non sempre comprensibile processo di programmazione locale.
Partiamo dal capire che quando si parla di programmazione non si parla ancora di risultati, quando si parla di progetti non si parla ancora di azioni concrete. Insommafra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Il mare, nel nostro caso sono i prossimi tre anni 2013/2015, è vasto e l'imbarcazione con cui le istituzioni si propongono di navigarlo, sembra essere un po' stretta e soprattutto priva dell'essenziale carburante finanziario. Infatti proprio la dotazione economica sembra essere, insieme alla scelta delle priorità di intervento, il vero tallone di Achille dell'intero dispositivo normativo. I fondi, di cui i singoli Piani di zona (e in provincia di Pordenone saranno 5) potranno fruire, sono gli stessi con cui si erogheranno i servizi e gli interventi. Per usare una metafora parlamentare sembra che questi Piani di zona servano più a mettere in ordine l'esistente che a creare innovazione. Insomma sono una sorte di legge quadro che raccoglie in alcune aree l'esistente, lo sistematizza e lo rioffre semplificato alla cittadinanza. Se così fosse già si sarebbe ottenuto un notevole risultato. Ma a che prezzo?
Le linee guida, l'apparato normativo, la predisposizione di programmi, di progetti e di processi di governance possono apparire come una mole di lavoro e di impegno abnorme e di cui ancora non si comprende la reale ricaduta sul sistema di erogazione dei servizi.
Si tratta in questa prima fase di processi governance, altra parola che significativamente non ha traduzione in italiano, ovvero di quel complesso sistema di gestione e governo delle leggi, delle norme, relazioni che servono a predisporre un processo partecipativo.
Governance significa, almeno nella declinazione sociale di cui parliamo, coinvolgimento, partecipazione, ascolto, raccolta bisogni, istanze, proposte, in una parola tavoli. La parola oltre evocare un (magro) banchetto ha, sui professionisti del sociale, un effetto rassegnato di grande dispendio di energie e di basso risultato poi sul piano attuativo. Purtroppo, e credo per una cattiva interpretazione dell'assunto partecipativo, i tavoli sono risorse di grande valore che però rimangono ingabbiati in un dispositivo che ha già in se le risposte.
Dopo l'esperienza 2006/2008 del primo Piano di Zona la parola d'ordine rimane ancora l'integrazione Socio Sanitaria. Si tratta di un'integrazione che, nei fatti, stenta a decollare e che rimane speranza prima ancora che progetto. Eppure da essa non si può prescindere in un sistema che a livello locale, regionale e nazionale e, parzialmente, europeo, si sta posizionando su tre macro aree di lavoro: Occupabilità, Sanità e Famiglia. Ciò obbliga il Sistema dei Servizi Sociali (dei Comuni) a confrontarsi non solo nelle aree ad alta integrazione sociosanitaria ma anche nel mercato del lavoro e nella comunità, con tutto quello che significa questa enorme parola/contenitore.

Come tutti gli strumenti anche il PDZ non ha valore etico ma la scrittura, la costruzione, gli indirizzi politici, morali e a volte etici per cui questo strumento è stato scritto sono chiari: intervenire nella ridefinizione del sistema di welfare, intervenire in aree ritenute scoperte o di particolare interesse comunitario e contingente (aree materno-infantile, disabilità, anziani, inserimento lavorativo, famiglia e genitorialità).
C'è da chiedersi se ha valore etico il coltello o il fatto che si usi per uccidere, così c'è da chiedersi se il PDZ debba essere giudicato per quello che è in potenza o per quello per cui verrà utilizzato.
In tutto questo la Cooperazione Sociale? Sembra un po' un convitato di pietra, che però è presente e partecipante ai processi di erogazione dei servizi.
Anche questa come tante altre volte è una questione di significati che vogliamo dare alle parole. Cooperazione non è forse sinonimo di partecipazione?

Progetti per le famiglie: il nuovo welfare passa per l'associazionismo?


Progetti per le famiglie: il nuovo welfare passa per l'associazionismo?
Andrea Satta e Elisa Giuseppin

La famiglia diviene sempre di più lo snodo delle politiche regionali di welfare. Questa svolta, iniziata ormai da alcuni anni con l'approvazione della L.R. 11/2006, ha visto una sua concreta realizzazione nella erogazione dei contributi legati alBando Famiglia 2012.
Sabato 29 settembre, alla presenza dell'assessore Roberto Molinaro e dei rappresentanti dell'Area Welfare di Palmanova (Ente gestore del finanziamento), sono state date le prime indicazioni sulla realizzazione dei progetti.
La dott.ssa Carrà dell'Università Cattolica di Milano, ha delineato le prospettive future di integrazione fra sistemi socio-assistenziali e associazionismo familiare. Si tratta di un approccio che affonda le sue radici nel Libro Bianco La vita buona nella società attiva del 2009 in cui la famiglia e la partecipazione degli attori comunitari era stata delineata come possibile risorsa del sistema di welfare.
[la famiglia] è soprattutto il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni.
Il ministro Sacconi aveva individuato l'ossimoro di universalismo selettivo come cardine del sistema misto di welfare.
È un modello che valorizza la responsabilità degli individui e la capacità dell’attore pubblico di stabilire ordini di priorità e dosare le risorse per mantenere il più possibile ampia la platea delle prestazioni e dei beneficiari, nel rispetto degli equilibri finanziari e senza introdurre discontinuità nei trattamenti.
I dati e le tecniche che gli intervenuti al convegno hanno evidenziato come buone prassi, passano tutte attraverso lo spontaneismo familiare che si struttura per divenire associazionismo e poi comunità.
Si passa dunque da una visione assistenziale, in cui professionalità, strutturazione e normazione hanno un peso predominante, ad un sistema che vede nella capacitazione (empowerment) dei fruitori finali il modello predominante.
In questo contesto quale diventa il ruolo dell'operatore, quale quello della cooperazione sociale? Che fine faranno gli investimenti della cooperazione nella formazione? Che fine faranno le risorse umane e finanziarie messe in campo per la crescita dei propri operatori?
La risposta, che solo parzialmente ci soddisfa, è che l'operatore in primis, e poi la cooperazione sociale, debbano diventare degli agenti di stimolo all'autorganizzazione familiare e comunitaria. Ciò significa ridefinire il ruolo dei servizi, la tipologia degli interventi e la destinazione dei finanziamenti in funzione di un welfare ancora da costruire e i cui confini rimangono, nonostante la buona volontà e l'impegno dell'Assessorato alla Famiglia, incerti.
Il bando famiglia, a cui FAI ha partecipato e ottenuto il finanziamento, è così occasione per dimostrare come il welfare aziendale possa divenire una buona prassi di quest'alchimia, ovvero la palestra in cui i soci (familiari e al contempo lavoratori) possano trovare nuove forme di autosostegno, partecipazione e condivisione degli obiettivi generali.
L'ottimo successo del Bando, pubblicato in febbraio, indica come sia forte e presente il bisogno di intervenire in aree scoperte, come ad esempio quelle dedicate all'infanzia e alla formazione, così come appare evidente dalla distribuzione territoriale, la forte vocazione associativa delle Provincie di Pordenone e Udine.
Un punto di forte criticità è dato dalla bassa presenza di cooperative sociali quali soggetti proponenti, evidenziando ancora un forte scollamento fra indirizzi politici e attuazione degli stessi nel contesto cooperativo. Infatti dei 123 progetti approvati, solo 8 sono stati ottenuti dalla cooperazione sociale, nonostante fossero, insieme alle associazioni, i soggetti attuatori del Bando.
C'è da chiedersi quale sia la ragione di questa bassa partecipazione in un momento di forte crisi e di difficoltà di accesso ai finanziamenti. Una prima spiegazione potrebbe stare nella difficoltà delle organizzazioni complesse, e l'impresa sociale sicuramente lo è, a cogliere i cambiamenti in modo veloce e leggero. D'altra parte le cooperative sono oggi i soggetti principali del sistema di welfare locale e il loro coinvolgimento è il criterio guida per la realizzazione del sistema integrato di servizi e interventi, come la L. 328/00 e la L.R. 6/2005 hanno definito ormai da anni. La capacità delle Cooperative di innovare, di competere, di rispondere in modo professionale ai bisogni è uno dei tasselli, forse uno dei più importanti, dell'intero sistema di welfare e la partecipazione a questi processi sistemici non può essere delegata ai rappresentanti dell'associazionismo e del volontariato che hanno altro ruolo e altra capacità di intervento.
In conclusione la partecipazione a progetti che pongano in primo piano la famiglia diviene per le cooperative, e il percorso sulle politiche di conciliazione FAI lo dimostra, un metodo di lavoro in cui è l'empowerment dell'intero sistema aziendale a produrre il vero valore aggiunto per la comunità.

domenica 6 gennaio 2013