Ippogrifo 10/2014
Contro
il non profit
Giovanni
Moro, 2014, Saggi Tascabili Laterza
ISBN: 9788858109946
Contro
il non profit,
come tutte le doppie negazioni, fa supporre un'affermazione: essere
per il profit.
Giocando
fin dall’inizio su questo artificio retorico il libro di Giovanni
Moro ci accompagna alla scoperta del settore che, a vario titolo,
chiamiamo NO profit, non profit, ONLUS, terzo settore, non lucrativo
e via enumerando eufemismi.
Lo
fa da interno, da studioso ma prima ancora da attivista (è lui la
mente dietro una delle esperienze più interessanti di processi
partecipativi di cittadinanza, Cittadinanzattiva),
infilando dubbi, evidenziando carenze ed eccellenze.
C’è
un’ipocrisia di fondo che ammanta tutto ciò che viene fatto senza
produrre beni tangibili ma, come vuole la vulgata noprofittevole,
beni relazionali: l’essere eticamente meglio di chi profitta
vendendo cose misurabili, tangibili.
Bastano
le parole solidarietà, volontariato, sociale, basta “vestire”
un ristorante da associazione culturale, pretendere che la
organizzazione di gite turistiche abbia un particolare valore sociale
perché realizzata da volontari, dichiarare non profit una struttura
sanitaria o educativa i cui costi la rendono inaccessibile per la
maggioranza della popolazione(p.5-6)?
Giovanni
Moro in questo è chiaro, o forse lo è parso a me, la differenza non
sta nel definirsi no qualcosa, ma nel fare qualcosa. Nel magma del
terzo settore (definizione che all’Italia piace), ci può star di
tutto, basta allargare e stringere le maglie delle definizioni e
conseguentemente allargare e stringere i lacci delle borse a cui il
fisco preleva. Cosi, in un’elencazione puntuale, persino divertente
a volte, si scoprono che i benefici del terzo settore vanno dalla
fisica nucleare alla bocciofila, dal teatro popolare alla disabilità
grave, dall’educazione infantile all'azione ecclesiale,
dall’inserimento lavorativo ai fondi pensione, dall’advocacy alla
sagra del tartufo.
Il
tutto crea una economia buona contrapposta ad una cattiva. Una
visione manichea in cui il mondo è fatto da capitalisti, brutti e
cattivi e da capitalisti sociali, buoni e belli. Il capitale sociale,
quella cosa che invece che metter via soldi mette da parte relazioni,
o meglio i succitati beni relazionali, diviene paradigmatico di cosa
buona e giusta. Una teoria che nella sua versione volgare e
imbarbarita sostiene che
il fatto che le persone che si mettano assieme ha un valore in sé
(p.42).
Eppure
non tutto l'oro luccica e gli
studiosi al proposito distinguono tra capitale sociale brinding e
bonding: quello cioè che crea ponti e quello che invece crea recinti
(p.62).
E se appare semplice riconoscere il valore relazionale di uno
scambio fra un operatore ed un ragazzo svantaggiato, fra un disabile
e il suo educatore, fra un migrante e un mediatore, assai più dura è
la valorizzazione relazionale del fare centinaia di chilometri da un
luogo comunitario ad un altro, del cambiare cateteri o pannoloni a
disabili o anziani non autosufficienti, e, ancor meno prosaicamente,
sporcarsi le mani per far sì che gli appalti siano realmente
trasparenti.
Il
crinale fra ciò che è giusto e ciò che non lo è, sembra essere il
modo in cui il guadagno venga rimesso, o non, in circolo. Una visione
economicistica che sposta l'attenzione dal risultato del lavoro al
risultante del lavoro.
Il
problema è l'immagine generalizzata di una economia buona perché
persegue solo vantaggi sociali contrapposta ad una cattiva delle
imprese private che invece persegue il profitto a tutti i costi: una
piccola nemesi marxiana, insomma che si personifica nella distinzione
fra me-economy e we-economy (p.64).
Così
sotto il cappello del non lucrativo lo Stato ha delegato immani
quantità di risorse economiche ad un mercato che ex
lege
sembra non poter avere l’unica caratteristica imprescindibile di un
mercato: il profitto. La diretta conseguenza è che senza profitto la
concorrenza è un concetto più leggero, verrebbe da argomentare, ma
nel caso
della concorrenza tra istituzioni non profit, è evidente che, per
così dire , se una cooperativa sociale è avvantaggiata rispetto ad
un impresa privata, una associazione di volontariato- che ha costi di
personale molto inferiori proprio in relazione al lavoro volontario-
è ancora più avvantaggiata. Si rischia così, di innescare una
catena di concorrenza sleale, che usualmente serve a far risparmiare
il settore pubblico ma non necessariamente a offrire servizi migliori
agli utenti (p.107).
Credo
di avere letto poche volte, in questi anni di lavoro sociale, analisi
più lucida e veritiera di questa. Ogni giorno, anche nella nostra
piccola realtà locale, nel mio lavoro quotidiano, ho visto operatori
fare i volontari senza doverlo fare, e volontari fare ciò che gli
operatori avrebbero dovuto fare.
Il
tutto viene giustificato, catalogato con un banale riconoscimento
statutario, una adesione, formale e legale, a norme affastellate
senza un disegno organico e senza, cosa assai più grave, un criterio
di valutazione ex post degno di nota.
Così
si usano nella creazione e poi valutazione di processi complessi e
invasivi della vita dei cittadini, come possono essere una casa di
riposo, una comunità di accoglienza per madri o un CIE, il massimo
ribasso (spesso camuffato in bandi dal barocchismo imperante),
sistemi di advocacy del tutto arbitrarie o coprogettazioni formali
più che reali.
I
difetti della valutazione sono noti e che i valutatori siano spesso
anche i valutati non aiuta, così come non aiuta che il giudizio si
basi su indicatori
eccessivamente semplicistici, che non tengano conto delle differenze
nella situazione finanziaria, operativa, organizzativa e di
governance delle organizzazioni (p.136).
Oggi
la realtà non
profit
italiana, fra le più complesse e articolate d'Europa, cerca di
operare per il bene pubblico spesso sostituendosi integralmente a
quella funzione di offerta sociale che la nostra legge delega allo
Stato, e ai suoi enti periferici. Nella realtà questa delega è
sempre più oggetto di guerre di mercato per l'acquisizione di quote
importanti nei territori della sanità , del sociale,
dell'educazione, della cultura.
Giovanni
Moro, ancora una volta, tocca il punto dolente e fa male. Meglio
così.