La questione identitaria (9-10-2006)
Ciononostante gli abitanti delle
isole accettano più facilmente i nuovi arrivi di quanto facciano gli altri,
forse anche per il fatto che, quando passano il braccio di mare che divide
l’isola dalla terra, anche loro diventano nuovi arrivati, oppure perché si
ricordano di essere pur essi venuti, una volta, da un altro luogo.
Pedrag Matvejević,
Mediterraneo, Un nuovo breviario 1999.
Mi
sono spesso chiesto se questo sia vero, sia vero che i sardi sono ospitali e
accolgono i nuovi arrivi, turisti, viaggiatori e migranti. Oggi, dopo essere
tornato, non ho una risposta.
Il
braccio di mare che noi, sardi, dobbiamo affrontare ogni qualvolta che torniamo
a casa diventa ogni giorno più faticoso e impervio. A poco contano i voli e le
navi veloci, ne conta nulla il poter comunicare, telefonare, scrivere e-mail.
Siamo sempre più distanti, sempre più emigrati e meno sardi.
Siamo
sempre più turisti.
Torniamo
a vedere ciò che il ricordo, il racconto ci chiede di vedere, e questo i nostri
familiari, amici, parenti ci fanno trovare.
Ogni
emigrazione, e la nostra non è diversa, congela il sentimento, lega le
sensazioni all’attimo dell’abbandono. Tutta la nostra vita sarà legata a quel
ricordo e ogni cambiamento sarà una sofferenza, uno strappo alla nostalgia.
D’altronde
il ritorno è questione irrisolvibile, è azione sempre volta al passato, non
lascia spazio alla maturazione di un sentimento di identità ma lo lega ad una
realtà che non esiste più.
La
vita dell’emigrato è sempre un po’ altrove, sia che l’integrazione sia perfetta
e completa, sia che sia parziale, combattuta e settaria.
Altrove
è il luogo dove ci si omologa annullando la propria identità originaria,
altrove è dove ci si separa senza acquisire nulla dell’identità di arrivo.
Una
forte identità, come quella sarda, non permette neanche ai figli, nipoti di
sardi emigrati ormai da 50 anni, di dimenticare. È una condanna al ricordo,
alla ricerca identitaria che si dipana nella vita del sardo, fuori dalla
Sardegna, come un filo attorcigliato, pieno di nodi che fatichiamo a
sciogliere.
Sono
15 anni che ho riconosciuto l’associazionismo come una “filonza” capace di
sciogliere alcuni nodi, ma nello stesso tempo parca che uccide la memoria. Così
la sera di carnevale la donna che fila ci ricorda che la memoria, che altro non
è che la vita, è un sottile intrecciato di ricordi e che ogni ricordo perso
assottiglia la nostra vita. Per questo mio padre si lega alle parole della sua
infanzia, ai suoni che ripete come una cantilena per non dimenticare la sua
origine. Sono parole arcaiche che io non conosco e non riesco a ricordare per
la paura di sovrapporle alla mia personale rete di memorie.
Il
luogo del ricordo, per noi che siamo lontani e ci allontaniamo sempre più, è
una stanza piena di nostalgia e di profumi, di chiacchiere e urla, di suoni e
colori. Una piccola patria che noi frequentiamo e da cui fatichiamo ad
allontanarci.
È
un ruolo che l’associazionismo deve avere? Deve il piccolo circolo assicurarci
un po’ di calore e di nostalgia?
Per
anni ho creduto che le cose si potessero cambiare diffondendo la cultura sarda,
la sardità, oggi mi accorgo che la sardità sa farcela benissimo da sola.
Sempre
più spesso “che ci faccio io qui” diventa il motto della diversità. La nostra
piccola patria è sempre più piccola e la Sardegna, che ogni giorno si propone
al mondo, non ha molto a che vedere neanche con quella che ricordo io, a 36
anni, figuriamoci con quella di mio padre e mia madre.
Siamo
sardi ma sardi diversi, stiamo diventando come gli Italiani di Argentina, che si riconosco fra di loro ma che noi italiani fatichiamo a riconoscere. Noi
sardi fuori dalla Sardegna siamo così: fra noi ci riconosciamo ma a casa non ci
riconoscono più. Neanche noi ci riconosciamo più in una terra che combatte per
la propria identità e per il proprio futuro, che ha saputo esaltare i pregi del
passato ma che ha anche saputo, purtroppo, consolidare i propri difetti
atavici.
Cerco
un’identità multipla, questo è quello che chiedo all’associazionismo del
futuro, saper accogliere le nuove identità, di dare accoglienza ai nuovi
emigrati, figli di una terra che non conosciamo più ma che abbiamo contribuito
a trasformare, abbandonandola. Chiedo anche di lasciare tracce della nostra
storia, una storia di emigrazione che ha portato prosperità a nuove realtà che
ha contribuito a far crescere terre non nostre ma che ci hanno accolto e
rifiutato. Chiedo di ascoltare la voce di chi non vuole impegnarsi, di chi
abbandona il circolo per integrarsi, di chi ha pregiudizio nei nostri
confronti, dei nuovi migranti del mondo che sono tanto simili a noi.
Vorrei
che i nostri circoli fossero una sfida, vorrei che fossero riconosciuti per
quello che sono: una risorsa.
Vorrei
poter dire che esiste un luogo di confronto, un pezzo di Sardegna con la stessa
dinamicità che percepisco nella nostra Isola, e non una cartolina sbiadita di
come eravamo.
Vivo
in Friuli, la cui identità lentamente assorbo, consapevole della perdita che
questa provoca. Divento meno sardo e acquisisco una nuova identità, diversa,
frutto di un compromesso fra il ricordo e il presente.
Il
presente è però pervaso dalla diversità. Diverso fra i diversi, questo è quello
che l’emigrazione dovrebbe donare, la consapevolezza della propria e altrui
diversità. Non la tolleranza, utile solo a chi deve sopportare una minoranza,
bensì il rispetto della alterità, e non solo etnica, ma religiosa, sociale,
fisica.
L’associazionismo
questo può fare: diventare luogo di accoglienza, di rispetto. A partire dal
rispetto della nostra storia e della nostra cultura.
Andria
Satta
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