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martedì 25 novembre 2014

Recensione Ippogrifo - Contro il non profit

Ippogrifo 10/2014
Contro il non profit
Giovanni Moro, 2014, Saggi Tascabili Laterza
ISBN: 9788858109946

Contro il non profit, come tutte le doppie negazioni, fa supporre un'affermazione: essere per il profit.
Giocando fin dall’inizio su questo artificio retorico il libro di Giovanni Moro ci accompagna alla scoperta del settore che, a vario titolo, chiamiamo NO profit, non profit, ONLUS, terzo settore, non lucrativo e via enumerando eufemismi.
Lo fa da interno, da studioso ma prima ancora da attivista (è lui la mente dietro una delle esperienze più interessanti di processi partecipativi di cittadinanza, Cittadinanzattiva), infilando dubbi, evidenziando carenze ed eccellenze.
Per anni ho lavorato nel settore, guardandolo da destra e da sinistra, dal basso, all’inizio bassissimo come tanti di noi operatori sociali, e dall’alto, a volte scivolando, a volte aiutando altri a non scivolare. Eppure ho sempre pensato che iniziare con una negazione fosse un cattivo inizio, che dire come prima cosa NO, pone una delle aree umane più interessanti in una luce e una dimensione scorretta.
C’è un’ipocrisia di fondo che ammanta tutto ciò che viene fatto senza produrre beni tangibili ma, come vuole la vulgata noprofittevole, beni relazionali: l’essere eticamente meglio di chi profitta vendendo cose misurabili, tangibili.
Bastano le parole solidarietà, volontariato, sociale, basta “vestire” un ristorante da associazione culturale, pretendere che la organizzazione di gite turistiche abbia un particolare valore sociale perché realizzata da volontari, dichiarare non profit una struttura sanitaria o educativa i cui costi la rendono inaccessibile per la maggioranza della popolazione(p.5-6)?
Giovanni Moro in questo è chiaro, o forse lo è parso a me, la differenza non sta nel definirsi no qualcosa, ma nel fare qualcosa. Nel magma del terzo settore (definizione che all’Italia piace), ci può star di tutto, basta allargare e stringere le maglie delle definizioni e conseguentemente allargare e stringere i lacci delle borse a cui il fisco preleva. Cosi, in un’elencazione puntuale, persino divertente a volte, si scoprono che i benefici del terzo settore vanno dalla fisica nucleare alla bocciofila, dal teatro popolare alla disabilità grave, dall’educazione infantile all'azione ecclesiale, dall’inserimento lavorativo ai fondi pensione, dall’advocacy alla sagra del tartufo.
Il tutto crea una economia buona contrapposta ad una cattiva. Una visione manichea in cui il mondo è fatto da capitalisti, brutti e cattivi e da capitalisti sociali, buoni e belli. Il capitale sociale, quella cosa che invece che metter via soldi mette da parte relazioni, o meglio i succitati beni relazionali, diviene paradigmatico di cosa buona e giusta. Una teoria che nella sua versione volgare e imbarbarita sostiene che il fatto che le persone che si mettano assieme ha un valore in sé (p.42).
Eppure non tutto l'oro luccica e gli studiosi al proposito distinguono tra capitale sociale brinding e bonding: quello cioè che crea ponti e quello che invece crea recinti (p.62). E se appare semplice riconoscere il valore relazionale di uno scambio fra un operatore ed un ragazzo svantaggiato, fra un disabile e il suo educatore, fra un migrante e un mediatore, assai più dura è la valorizzazione relazionale del fare centinaia di chilometri da un luogo comunitario ad un altro, del cambiare cateteri o pannoloni a disabili o anziani non autosufficienti, e, ancor meno prosaicamente, sporcarsi le mani per far sì che gli appalti siano realmente trasparenti.
Il crinale fra ciò che è giusto e ciò che non lo è, sembra essere il modo in cui il guadagno venga rimesso, o non, in circolo. Una visione economicistica che sposta l'attenzione dal risultato del lavoro al risultante del lavoro.
Il problema è l'immagine generalizzata di una economia buona perché persegue solo vantaggi sociali contrapposta ad una cattiva delle imprese private che invece persegue il profitto a tutti i costi: una piccola nemesi marxiana, insomma che si personifica nella distinzione fra me-economy e we-economy (p.64).
Così sotto il cappello del non lucrativo lo Stato ha delegato immani quantità di risorse economiche ad un mercato che ex lege sembra non poter avere l’unica caratteristica imprescindibile di un mercato: il profitto. La diretta conseguenza è che senza profitto la concorrenza è un concetto più leggero, verrebbe da argomentare, ma nel caso della concorrenza tra istituzioni non profit, è evidente che, per così dire , se una cooperativa sociale è avvantaggiata rispetto ad un impresa privata, una associazione di volontariato- che ha costi di personale molto inferiori proprio in relazione al lavoro volontario- è ancora più avvantaggiata. Si rischia così, di innescare una catena di concorrenza sleale, che usualmente serve a far risparmiare il settore pubblico ma non necessariamente a offrire servizi migliori agli utenti (p.107).
Credo di avere letto poche volte, in questi anni di lavoro sociale, analisi più lucida e veritiera di questa. Ogni giorno, anche nella nostra piccola realtà locale, nel mio lavoro quotidiano, ho visto operatori fare i volontari senza doverlo fare, e volontari fare ciò che gli operatori avrebbero dovuto fare.
Il tutto viene giustificato, catalogato con un banale riconoscimento statutario, una adesione, formale e legale, a norme affastellate senza un disegno organico e senza, cosa assai più grave, un criterio di valutazione ex post degno di nota.
Così si usano nella creazione e poi valutazione di processi complessi e invasivi della vita dei cittadini, come possono essere una casa di riposo, una comunità di accoglienza per madri o un CIE, il massimo ribasso (spesso camuffato in bandi dal barocchismo imperante), sistemi di advocacy del tutto arbitrarie o coprogettazioni formali più che reali.
I difetti della valutazione sono noti e che i valutatori siano spesso anche i valutati non aiuta, così come non aiuta che il giudizio si basi su indicatori eccessivamente semplicistici, che non tengano conto delle differenze nella situazione finanziaria, operativa, organizzativa e di governance delle organizzazioni (p.136).
Oggi la realtà non profit italiana, fra le più complesse e articolate d'Europa, cerca di operare per il bene pubblico spesso sostituendosi integralmente a quella funzione di offerta sociale che la nostra legge delega allo Stato, e ai suoi enti periferici. Nella realtà questa delega è sempre più oggetto di guerre di mercato per l'acquisizione di quote importanti nei territori della sanità , del sociale, dell'educazione, della cultura.
Giovanni Moro, ancora una volta, tocca il punto dolente e fa male. Meglio così.