chi cerca trova

Visualizzazione post con etichetta ippogrifo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ippogrifo. Mostra tutti i post

martedì 25 novembre 2014

Recensione Ippogrifo - Contro il non profit

Ippogrifo 10/2014
Contro il non profit
Giovanni Moro, 2014, Saggi Tascabili Laterza
ISBN: 9788858109946

Contro il non profit, come tutte le doppie negazioni, fa supporre un'affermazione: essere per il profit.
Giocando fin dall’inizio su questo artificio retorico il libro di Giovanni Moro ci accompagna alla scoperta del settore che, a vario titolo, chiamiamo NO profit, non profit, ONLUS, terzo settore, non lucrativo e via enumerando eufemismi.
Lo fa da interno, da studioso ma prima ancora da attivista (è lui la mente dietro una delle esperienze più interessanti di processi partecipativi di cittadinanza, Cittadinanzattiva), infilando dubbi, evidenziando carenze ed eccellenze.
Per anni ho lavorato nel settore, guardandolo da destra e da sinistra, dal basso, all’inizio bassissimo come tanti di noi operatori sociali, e dall’alto, a volte scivolando, a volte aiutando altri a non scivolare. Eppure ho sempre pensato che iniziare con una negazione fosse un cattivo inizio, che dire come prima cosa NO, pone una delle aree umane più interessanti in una luce e una dimensione scorretta.
C’è un’ipocrisia di fondo che ammanta tutto ciò che viene fatto senza produrre beni tangibili ma, come vuole la vulgata noprofittevole, beni relazionali: l’essere eticamente meglio di chi profitta vendendo cose misurabili, tangibili.
Bastano le parole solidarietà, volontariato, sociale, basta “vestire” un ristorante da associazione culturale, pretendere che la organizzazione di gite turistiche abbia un particolare valore sociale perché realizzata da volontari, dichiarare non profit una struttura sanitaria o educativa i cui costi la rendono inaccessibile per la maggioranza della popolazione(p.5-6)?
Giovanni Moro in questo è chiaro, o forse lo è parso a me, la differenza non sta nel definirsi no qualcosa, ma nel fare qualcosa. Nel magma del terzo settore (definizione che all’Italia piace), ci può star di tutto, basta allargare e stringere le maglie delle definizioni e conseguentemente allargare e stringere i lacci delle borse a cui il fisco preleva. Cosi, in un’elencazione puntuale, persino divertente a volte, si scoprono che i benefici del terzo settore vanno dalla fisica nucleare alla bocciofila, dal teatro popolare alla disabilità grave, dall’educazione infantile all'azione ecclesiale, dall’inserimento lavorativo ai fondi pensione, dall’advocacy alla sagra del tartufo.
Il tutto crea una economia buona contrapposta ad una cattiva. Una visione manichea in cui il mondo è fatto da capitalisti, brutti e cattivi e da capitalisti sociali, buoni e belli. Il capitale sociale, quella cosa che invece che metter via soldi mette da parte relazioni, o meglio i succitati beni relazionali, diviene paradigmatico di cosa buona e giusta. Una teoria che nella sua versione volgare e imbarbarita sostiene che il fatto che le persone che si mettano assieme ha un valore in sé (p.42).
Eppure non tutto l'oro luccica e gli studiosi al proposito distinguono tra capitale sociale brinding e bonding: quello cioè che crea ponti e quello che invece crea recinti (p.62). E se appare semplice riconoscere il valore relazionale di uno scambio fra un operatore ed un ragazzo svantaggiato, fra un disabile e il suo educatore, fra un migrante e un mediatore, assai più dura è la valorizzazione relazionale del fare centinaia di chilometri da un luogo comunitario ad un altro, del cambiare cateteri o pannoloni a disabili o anziani non autosufficienti, e, ancor meno prosaicamente, sporcarsi le mani per far sì che gli appalti siano realmente trasparenti.
Il crinale fra ciò che è giusto e ciò che non lo è, sembra essere il modo in cui il guadagno venga rimesso, o non, in circolo. Una visione economicistica che sposta l'attenzione dal risultato del lavoro al risultante del lavoro.
Il problema è l'immagine generalizzata di una economia buona perché persegue solo vantaggi sociali contrapposta ad una cattiva delle imprese private che invece persegue il profitto a tutti i costi: una piccola nemesi marxiana, insomma che si personifica nella distinzione fra me-economy e we-economy (p.64).
Così sotto il cappello del non lucrativo lo Stato ha delegato immani quantità di risorse economiche ad un mercato che ex lege sembra non poter avere l’unica caratteristica imprescindibile di un mercato: il profitto. La diretta conseguenza è che senza profitto la concorrenza è un concetto più leggero, verrebbe da argomentare, ma nel caso della concorrenza tra istituzioni non profit, è evidente che, per così dire , se una cooperativa sociale è avvantaggiata rispetto ad un impresa privata, una associazione di volontariato- che ha costi di personale molto inferiori proprio in relazione al lavoro volontario- è ancora più avvantaggiata. Si rischia così, di innescare una catena di concorrenza sleale, che usualmente serve a far risparmiare il settore pubblico ma non necessariamente a offrire servizi migliori agli utenti (p.107).
Credo di avere letto poche volte, in questi anni di lavoro sociale, analisi più lucida e veritiera di questa. Ogni giorno, anche nella nostra piccola realtà locale, nel mio lavoro quotidiano, ho visto operatori fare i volontari senza doverlo fare, e volontari fare ciò che gli operatori avrebbero dovuto fare.
Il tutto viene giustificato, catalogato con un banale riconoscimento statutario, una adesione, formale e legale, a norme affastellate senza un disegno organico e senza, cosa assai più grave, un criterio di valutazione ex post degno di nota.
Così si usano nella creazione e poi valutazione di processi complessi e invasivi della vita dei cittadini, come possono essere una casa di riposo, una comunità di accoglienza per madri o un CIE, il massimo ribasso (spesso camuffato in bandi dal barocchismo imperante), sistemi di advocacy del tutto arbitrarie o coprogettazioni formali più che reali.
I difetti della valutazione sono noti e che i valutatori siano spesso anche i valutati non aiuta, così come non aiuta che il giudizio si basi su indicatori eccessivamente semplicistici, che non tengano conto delle differenze nella situazione finanziaria, operativa, organizzativa e di governance delle organizzazioni (p.136).
Oggi la realtà non profit italiana, fra le più complesse e articolate d'Europa, cerca di operare per il bene pubblico spesso sostituendosi integralmente a quella funzione di offerta sociale che la nostra legge delega allo Stato, e ai suoi enti periferici. Nella realtà questa delega è sempre più oggetto di guerre di mercato per l'acquisizione di quote importanti nei territori della sanità , del sociale, dell'educazione, della cultura.
Giovanni Moro, ancora una volta, tocca il punto dolente e fa male. Meglio così.



venerdì 14 febbraio 2014

RECENSIONE DI TACCUINO SIRIANO

RECENSIONE DI TACCUINO SIRIANO su Ippogrifo 
di Andrea Satta



Taccuino siriano (16 gennaio-2 febbraio 2012)
Di Jonathan Littell,
pp. 193
ISBN 9788806213824

La guerra è sempre un gioco al massacro e Jonathan Littell lo sa.
La Siria di Bashar al-Assad è uno di quei prodotti della guerra fredda che, finita, si sono scaldati velocemente. Il mondo arabo, o se si preferisce l'Islam, appare come un uovo nel microonde: scoppierà sicuramente. Il microonde siamo noi, la nostra terra e la nostra storia. A scanso di equivoci nostra è in senso universale, di umanità.
La tragedia siriana, ancora oggi lontanissima da vedere una soluzione diversa dalla carneficina, altro non è che lo specchio distorto di un modo di pensare il mondo. Un pianeta in cui pensiamo di poter giocare alla guerra dividendo il planisfero in settori, regioni, religioni, razze. Eppure, come qualsiasi buon giocatore di Risiko! sa, per conquistare un qualsiasi obiettivo bisogna sempre partecipare ad una guerra totale.
La guerra non è mai giusta o sbagliata è semplicemente, e banalmente, il peggior metodo per risolvere le controversie, spesso è l'unico che si vuole o che si può intraprendere. Questa visione cinica è continuamente presente nei discorsi degli ospiti, delle guide nell'inferno siriano che accompagnano Littell da un quartiere all'altro. Essere giornalisti è una strana condizione privilegiata, permette di dire, fotografare, registrare crudeltà e pietà con lo stesso registro, lo stesso strumento. Eppure proprio oggi che tutto è comunicazione appare sempre più debole il potere dei media, la forza della diplomazia e della ragione di fronte all'eccesso dei dittatori, alla rigidità fondamentalista dei ribelli, alla superficialità e disattenzione del resto del mondo.
«Usciti da Homs, quei giornalisti non hanno invece mancato di rendere omaggio a quanti li avevano aiutati e commentare con parole molto appropriate e molto dure la carneficina che si svolgeva nell'indifferenza quasi generale. Sì, alcuni governanti l'hanno violentemente condannata; però hanno lasciato fare. Mi si dirà che non avevano scelta. Potrei rispondere che una scelta l'abbiamo sempre, come l'avevano coloro che in Siria si sono ribellati contro  Bashar al-Assad e il suo regime marcio, ammuffito, e comunque, a lungo andare, condannato.»

La scrittura di Littell è spesso fastidiosa, chi ha affrontato il romanzo fiume Le Benevole lo sa, ricca di riferimenti corporali, quotidiani, solo apparentemente banali, una scrittura che, pur rasentando la morbosità, non scade mai nel pornografico.
É questa la forza di chi vuol raccontare l'ennesima tragedia di quella primavera araba che nessuno, né i fondamentalisti né la Russia né l'Occidente né la Lega Araba, vogliono non violenta e democratica.
Appunti di viaggio? Reportage di guerra? Aneddotica macabra? Pamphlet politico? Littell, come aveva già fatto in Cecenia, anno III e in Il secco e l'umido. Breve incursione in territorio fascista  affronta la politica con disincanto, la guerra con maniacale attenzione ai particolari alle nomenclature, alle sofferenze fisiche.
«In teoria non dovremmo passare sulle mine. Ci sono altri modi per attraversare, che funzionano bene, salvo imprevisti. Lui ha dovuto farlo una sola volta. Ma se proprio non si può evitare, non è un problema: quindici giorni dopo che l’esercito aveva posato le mine, due mesi fa, l’Esl ha bonificato un corridoio largo tre metri al centro della zona minata. Un tizio ci ha rimesso le gambe. Gli uomini scherzano: «Bum!» e con le mani sulle spalle mimano le ali di un angelo. Il corridoio è segnalato da pietre, e i contrabbandieri lo usano regolarmente. Collera: «Se bisogna attraversarlo, andrò avanti io. Le vostre vite sono piú importanti della mia». Ampolloso ma sincero.»
Si percepisce, anche nella frammentazione continua del taccuino, la volontà di descrivere spezzoni di una realtà disfatta, parcellizzata, atomizzata in gruppi combattenti, in comandanti, profeti e agitatori.
Le guerre moderne sono, nonostante le grandi potenze facciano ancora fatica a comprenderlo, cluster bomb. Sono quel tipo di ordigno che invece che colpire l'avversario in modo semplice e preciso, disseminano il terreno di mine microscopiche, frantumano le bombe in schegge onnipresenti, frantumano la quotidianità trasformando una strada in un inferno e la strada successiva nella salvezza. Quartiere e vie sono microcosmi dove il venditore di falafel, il pronto soccorso illegale, le case, i cimiteri, i nidi di cecchini e i posti di blocchi convivono conquistando legittimità nella conta macabra dei sommersi e dei salvati.
Taccuino siriano narra del viaggio di due settimane, da inviato di Le Monde, fra le fila dell'Esl, l'Esercito Siriano Libero. Un viaggio a Homs, città martire che per qualche mese ha tenuto banco sulle pagine dei giornali internazionali, e che, per molti versi, è paradigmatica del modo di fare rivoluzione nel mondo arabo.
Homs non è diversa da Misurata, né da Bengasi: è un luogo in cui dall'apparente calma si scatena una rivoluzione. Prima si manifesta, e gli occidentali paternamente approvano la primavera, poi il regime di turno bombarda, e gli occidentali paternamente rimproverano il dittatore (amico fino al giorno prima) di essere maleducato, poi gli insorti si armano, e gli occidentali sganciano mancette sotto forma di armi leggere, infine, arrivato l'inverno, gli insorti muoiono, il regime s'incattivisce, gli occidentali pontificano e, se hanno armi in smaltimento, bombardano. Se questo dura un anno, due anni ciò che rimane sono solo macerie, ottimo presupposto per un altro regime e un'altra guerra fratricida.

Littell corre da un ospedale all'altro da un posto di blocco ad una postazione di insorti armati del sovietico Rpg (lanciagranate anticarro portatile), da una manifestazione ad un funerale, lo fa mangiando falafel, kebab e raccontandoci della sua febbre, delle docce, degli appartamenti arredati all'occidentale ma senza donne, dei bambini armati e dei bambini bersaglio dei cecchini. Littell mette tutto sullo stesso piano, come fa la vita in luoghi di guerra. Nessuna differenza fra vita e morte, solo saper correre più veloci o trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
«La vita dei soldati: dormire, mangiare, pulire le armi, montare la guardia, e di tanto in tanto combattere. Molta pazienza e molta noia per poche ore intense, che a volte concludono con una ferita , o con la morte.»


martedì 11 febbraio 2014

E(v)viva la famiglia - editoriale diffuso

Ippogrifo 9/13

Pensare la famiglia

Quando entriamo nella famiglia, con l’atto di nascita, entriamo in un mondo imprevedibile, un mondo che ha le sue strane leggi, un mondo che potrebbe fare a meno di noi, un mondo che non abbiamo creato. In altre parole, quando entriamo in una famiglia, entriamo in una favola.
Gilbert Keith Chesterton, Eretici, 1905

Ho costruito nella mia testa una famiglia di pensieri: padre, madre, figli, fratelli e sorelle, una mappa mentale, fatta di educazione, vita e vista in continuo divenire, ovvero la mia percezione
dell’altro. Una gerarchia culturale che influenza il modo di vivere, il mio mondo costruito di relazioni e di scontri.
Pensare  è  gerarchia,  matematica, per quanto ci sembri osceno limitare  il  pensiero  alla  mera  sovrapposizione,  apposizione  e  opposizione  di  concetti,  di  parole  e sensazioni. La famiglia ci dà il senso dell’essere, lo inquadra e lo irreggimenta, ne coglie confini, limiti e spazi, nel contempo apre prospettive, visioni, speranze.
Penso, dunque sono famiglia.

Leggere la famiglia

Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi.
No, leggete per vivere.
Gustave Flaubert,  lettera a Mille de Chantepie, 1857

Leggo di famiglie altrui, le cerco di comprendere, di adeguarle all’universo limitato della mia esistenza. Mi chiedo: diciamo tutto, scriviamo tutto o, come io  penso,  il  pudore  dell’intimità ci  rende  ipocriti.  La  famiglia  ci contiene e ci espelle con la stessa facilità, ci turba e ci ama, infine ci riconduce a sé volenti o nolenti. In questo è indicibile, troppo personale per essere universale.
Leggo di famiglie mie, le leggo negli occhi dei miei genitori anziani aggrappati a ciò che è stato e timorosi di ciò che sarà. Leggo della mia famigia, di quella che credo possa esserlo e mi chiedo se diverrà come le altre o se sarà sempre un’altra famiglia.

Immaginare la famiglia

Forse ti sposerai o forse no. forse avrai figli o forse no. forse divorzierai a quarant’anni. Forse ballerai con lei al settantacinquesimo anniversario di matrimonio.
Comunque vada, non congratularti troppo con te stesso, ma non rimproverarti neanche.
le tue scelte sono scommesse. Come quelle di chiunque altro.
Mary Schmich, Usa la crema solare, 1997

Un unico piano sequenza, primi piani, piani americani, nessun montaggio, solo un susseguirsi di immagini e sensazioni. Luoghi, tempi e spazi individuali, chiusi fra mura domestiche e abbandonati in deserti infiniti o foreste impenetrabili.
Così  si  dipana  il  filo  della memoria di ognuno di noi, costruendo la storia familiare sen-
za cesure ma piena di censure.
È questo il paradosso dell’immagine  della  famiglia:  volerla perfetta e senza intoppi, senza drammi  e  sempre  a  lieto  fine, averla  reale,  complessa,  drammatica e a volte omicida.
La regia è importante, comporre una storia, dare peso e forza a ciò che conta, la sceneggiatura, invece, è impossibile, come rappresentare la Famiglia. 

È viva la famiglia?

È viva la famiglia?
di andrea Satta

in Ippogrifo 9/2013

Scrivere di famiglia è un po’ come scrivere dell’universo.
Si può partire dal molto piccolo o dal molto grande, scrivere dell’immensità e dell’infinitesimale: in entrambi i casi nulla verrà veramente spiegato.
Il rischio è di cadere nella retorica o peggio nella banalità.
La famiglia è un oggetto sociale pericoloso, in grado di raggiungere vertici di emozioni e abissi di depravazioni. È in perenne divenire, è il luogo privilegiato
delle relazioni umane, snodo di tutto l’agire quotidiano, partenza e ritorno della quotidianità. La vita, ci viene detto, parte dall’unione di due, ne è il volere o, spesso, il dovere.
La famiglia è sempre un composto, anche quando è fatta da un singolo, di sentimenti, regole, abitudini e leggi, è sempre più una ricetta dagli ingredienti difficilmente dosabili.
Quante siano le possibili combinazioni nelle relazioni, chi siano i soggetti di questo contratto e chi gli oggetti della transazione, quali i costi personali, sociali, culturali delle scelte? La famiglia possiede una tassonomia in continua evoluzione, le norme fotografano in analogico ciò che è digitale, gli attori sociali rincorrono le molecole, gli atomi e nuclei sempre a rischio di esplosione.
Possiamo definirla come una piccola bomba nucleare a rischio di fissione, a volte di fusione, le cui ricadute si sentono a distanza di anni, decenni, e provocano mutazioni sociali, culturali, relazionali, che comprendiamo solo con molto ritardo.
La famiglia è un concetto autarchico. È fine a se stessa ma è anche il fine della comunità. Non esiste comunità senza rigenerazione, dunque non esiste rigenerazione senza famiglia. Questo sembra l’assioma primo dell’autoconservazione del genere umano.
Essere senza famiglia è un peccato primigenio e, sembrano dirci gli esperti, una colpa inconsapevole, la solitudine è ciò da cui la famiglia ci protegge, ci soccorre.
Eppure la famiglia è anche il luogo in cui l’isolamento e l’abitudine ci attanagliano.
In tutto questo l’aspetto rigenerativo, l’avere o non avere, il possedere o non possedere figli è il discrimine concettuale per la tassonomia. Sono famiglie minus abens quelle senza figli? Si possono definire famiglie e basta, o bisognerebbe chiamarle famiglie in potenza? La questione etica si scontra perennemente su questo: una contemporaneità ricca di generazioni potenziali e una storia ricca di generazioni perdute. Il senso della storia, della sua distorsione morale, della sua presunta capacità di tramandare e insegnare ha forgiato un concetto di famiglia che, idealizzato, ha portato a riconoscerci solo in un topos immaginario fatto di salvazione e redenzione intrafamiliare. La famiglia che uccide, sevizia, tortura è la famiglia che sbaglia, non è più semplicemente una famiglia. Così la coppia che non è maschile e femminile, o che lo è diversamente dall’estetica, quella che non è coppia, ma è una dei suoi multipli, o quella che diviene dispari, o rimane singola, sono variabili sospette, fuori canone. Eppure reali, vive e presenti e parte integrante delle nostre comunità.
Sembra che la visione diacronica prevalga nella definizione di quello che potrebbe semplicemente chiamarsi società e che oggi più che mai, in Italia in particolare, diviene famiglia. L’etica, con o senza prefissi biologici, diventa la scusa per giudicare il modo di aggregarsi, di congiungersi e di perpetuarsi, distinguendo un bene da un male, un giusto da uno sbagliato e un vero da un falso.
Così la famiglia diviene il tramite fra individuo e Società, fra passato e Futuro, fra uomo e Dio. E le maiuscole sono giuste.

Le scorribande fra psicanalisi, diritto, sociologia, educazione, religione, cinema e arte cercheranno di dimostrare che ancora dobbiamo capire molto e che forse abbiamo frainteso troppo...

lunedì 28 ottobre 2013

Il rimedio è la povertà

a leggerlo prima avrebbe risparmiato il numero dell'Ippogrifo Miseria e povertà

di Goffredo Parise (“Corriere della Sera”, 30 giugno 1974)

Questa volta non risponderò « ad personam », parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: « I poveri hanno sempre ragione », scritta alcuni mesi fa, e quest'altra: « Il rimedio (di tutto) è la povertà. Tornare indietro? Si, tornare indietro », scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima hanno scritto che sono «un comunista », per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di «consumare ».
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c'è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall'altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d'accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro Paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e cosi il senso più profondo e storico di « classe ». Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affannati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra « ideologia » nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell'acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è « comunismo », come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l'automobile, le motociclette, le famose e cretinissime « barche ».
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l'olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro Paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l'uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro Paese che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro Paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro Paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l'illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro Paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

II nostro Paese è un'enorme bottega di stracci non necessari (perché sono (stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli « etichettati » che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a «flatus vocis» ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani « comprano» ideologia al mercato dagli stracci ideologici cosi come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, ,per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l'hanno voluta disprezzare nell'euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro «qualità », la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c'è di tutto, vedi l'estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l'elite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all'opposizione. L'obbligo mondano impone la « boutique » ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del « grand marché aux puces » ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob ara questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più «corretta», come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell'Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l'enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro Paese.

Goffredo Parise

mercoledì 27 giugno 2012

Economia dell'identità


Recensione su Ippogrifo estate 2012 (nuova serie 12)

Economia dell'identità
George A. Akerlof, Rachel E. Kranton
Economia dell'identità
Come le nostre identità determinano lavoro, salari e benessere
trad. di R. Spaventa
Edizione: 2012
Collana: Anticorpi [22]
ISBN: 9788842096153

La parola identità è una parola scivolosa, ambigua e potente. Così come la parola economia. Mettere inseme economia ed identità significa rischiare una doppia scivolata, almeno che voi non siate un premio nobel dell'economia come G.A. Akerlof.
Identità è la parola chiave della storia che Akelorf e Kranton vogliono raccontarci.
Senza non si comprende perché il tentativo dell'economia di prevedere il futuro, di identificare parametri di controllo, indicatori di risultato, incentivi, perdite e profitti non abbia prodotto i risultati sperati.
Per quanto gli uomini comprino, o meglio facciano scelte economiche, su spinte individuali ciò non basta a spiegare come, a parità di condizione, alcuni ottengono risultati migliori di altri.
La teoria economica, almeno quella classica, non riconosce all'identità un peso sostanziale ma piuttosto la spoglia del significato collettivo lasciandola come variabile poco rilevante ai fini dell'utilità. Con un procedimento analitico standardizzato gli autori aggiungono variabili
«-le categorie sociali e la categoria di attribuzione di ciascun individuo, o identità
-le norme e gli ideali per ciascuna categoria
-l'utilità identitaria, vale a dire il guadagno che si ottiene agendo in conformità con le norme e gli ideali, o la perdita che si subisce quando ciò avviene.»
Tutto il saggio gira attorno alla giustificazione di questi parametri, alla loro comprensione in esempi concreti.
«Il consumo di sigarette è un chiaro esempio del ruolo giocato dalle norme sociali. Il cambiamento delle norme di genere è stata la causa più importante nel determinare l'incremento di donne fumatrici negli Stati Uniti. La teoria economica attuale punta sull'aumento della tassazione come fattore per disincentivare il fumo. Ma l'aumento delle tasse è difficile da imporre e da applicare. L'economia dell'identità amplia il campo di ricerca sia delle cause del fenomeno sia dei rimedi da applicare.»
L'identità, nonostante in Italia il dibattito sia stato ottenebrato da identità fittizie, funzionali alla politica e al potere più che al riconoscimento di un aspetto valoriale delle appartenenze, è un aspetto fondamentale delle scelte individuali.
«Nella nostra analisi, le strutture sociali sono fattori che possono limitare le possibilità di scelta. In una società dove le categorie sociali sono definite, ad esempio, da razza, famiglia, ambiente e etnia può essere virtualmente impossibile per un individuo adottare una nuova identità.»
Insomma è grazie all'identità, o per sua colpa, che i nostri comportamenti diventano collettivi.
Spesso mi trovo a discutere nelle scuole di stereotipi di genere e chiedo ai ragazzi di elencarmi le differenze che possono causare discriminazione.
É un esercizio che dà sempre risultati diversi, a seconda della scuola, della prevalenza di donne o di uomini, della presenza o meno di handicap, di stranieri, di alunni negri, ed infine di provenienza proletaria o benestante. Uso volontariamente termini politicamente scorretti perché l'identità serve a marcare la differenza, non certo l'omogeneità, anche nelle parole. Il risultato è straordinariamente simile a quello di cui economia dell'identità parla: le nostre vite prendono la strada dell'insider o dell'outsider.
I miei ragazzi sono terribilmente simili a quelli che descrivono Akelorf e Kranton: alcuni sanno di essere privilegiati altri sanno di non esserlo, o meglio tutti credono di saperlo. Alcuni sanno che per entrare nel sistema (essere insider) dovranno scendere ad un compromesso identitario senza certezza di risultato, altri decidono di rimanere fuori (outsider) ma di mantenere la loro identità.
Quanto la consapevolezza di questi meccanismi (economici) sia presente negli educatori e negli studenti è difficile a dirsi. Eppure dietro la consolatoria parola bullismo si nascondono intrecci assai più complessi che una semplicistica volontà di prepotenza ed emulazione. Gli outsider sono coloro che meglio riconoscono il fattore economico, la capacità di autoaffermazione prima ancora che di spesa, e che meglio ne individuano i limiti identitari.
«Eravamo davvero furiosi per il modo in cui gli insegnanti ci trattavano. Ci guardavano dall'alto in basso. Non ci hanno mai veramente aiutato. Molti di noi erano veramente in gamba. Eppure non c'è mai passato per la testa che la scuola avrebbe potuto fare qualcosa per noi.»
L'Italia è oggi un adolescente nell'affrontare i problemi di diversità, di politiche razziali, di genere, di contrasto alla povertà. Mai, nel corso della storia repubblicana, ci siamo trovati di fronte al dilemma economico identitario. Per venti anni abbiamo fatto finta di interessarci di integrazione, di parità di genere, di multiculturalismo, abbiamo perso venti anni a discutere di eliminazione del problema (povertà, donne o stranieri) e non della sua comprensione. Oggi, e non parlo solo della scuola, il bullismo è la parola burqua che copre l'evidenza dell'inadeguatezza del sistema comunitario, scolastico, formativo, occupazionale, sociale.
Se solo ci si ponesse, come classe dirigente, il problema di comprensione del valore dell'identità nelle azioni individuali, gli stregoni dell'economia comprenderebbero che i cattivi comportamenti, ovvero la spinta autodistruttiva, non può essere spiegata solo con i criteri economici, ma deve essere compresa con altri strumenti, diversi dalla econometria e forse anche dalla sociologia.


Poveri Aforismi


POVERI AFORISMI, Pubblicato Ippogrifo estate 2012 (nuova serie 12)

Povertà, abbondanza, miseria, ricchezza si confondono nella storia dell'umanità, sono parole intercambiabili nella vita di ognuno di noi: oggi son ricco e domani no, oggi son povero e domani anche. Bisognerebbe ragionare per parole chiave, per collegamenti semantici, come in quel gioco di psicologia spicciola: la prima parola che ti viene in mente se dico povertà?
Aforisma!
L'aforisma è di per sé povero, lascia la parola al suo significato, tralascia la carne per l'osso e lo spolpa.
Cosa c'è di più spolpato della povertà, cosa di più significativo della mancanza in favore dell'essenziale.
Cosa meglio della povertà ridefinisce i confini del proprio agire in funzione della Verità in antitesi dell'abbondanza?
Da sempre la povertà ha combattuto contro se stessa, contro l'evidenza della sua speranza di superfluo.
La povertà è ricchezza, lo dicono un po' tutti, o almeno cercano di farcelo credere. E noi ci crediamo.

Ho raccolto frasi, sentenze, motti e considerazioni con puro spirito accumulativo, il contrario della parsimonia sperando che la ricchezza delle fonti non pregiudichi la stessa povertà del contenuto o meglio che il contenuto della povertà non pregiudichi la ricchezza delle fonti.
Ossimoro finale: ho ordinato le frasi affidandomi al caso.

Un uomo è povero non già quando non ha niente, ma quando non lavora.
Charles-Louis de Montesquieu

Povero: aspirante ricco.
Charles Régismanset

Il povero e il mendicante appartengono a due classi molto differenti: il primo ispira rispetto, il secondo eccita la collera.
Honoré de Balzac

La povertà è una forma di alitosi spirituale.
George Orwell

Anche la miseria è un'eredità.
Riccardo Bacchelli

Il capitalismo è un'ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria.
Winston Churchill

La povertà non è un vizio; ma la miseria, la miseria è vizio. Nella povertà voi conservate ancora la nobiltà dei vostri sentimenti innati; nella miseria, invece, nessuno mai la conserva.
Fëdor Dostoevskij

La vera miseria è la falsa nobiltà.
Totò

Là dove si è voluto esasperare ancora di più il capitalismo, facendone un capitalismo di Stato, la miseria è semplicemente spaventosa.
Benito Mussolini

La lotta alla miseria deve essere condotta dal Governo, mentre la ricerca della felicità deve essere lasciata all'iniziativa privata. In altre parole bisogna essere socialisti al vertice e liberi imprenditori alla base.
Karl Popper

Io amo i poveri, e soffrirei in un mondo senza poveri; i poveri sono le brioches dell'anima. Giorgio Manganelli

Ci sono persone che per tutta la loro vita serbano rancore a un mendicante perché non gli hanno dato niente.
Karl Krauss

Ci sono persone che considerano necessario soltanto il superfluo.
Charles-Louis de Montesquieu

«Date a Cesare quel che è di Cesare».«Date a Dio quel che è di Dio»... Non ci resterebbe niente. Proviamo a non dare niente a nessuno dei due.
Guido Ceronetti

Il mendicante è un povero che, impaziente di avventure, ha lasciato la povertà per esplorare le giungle della pietà.
Emile M. Cioran

La ricchezza è una convinzione; la povertà una certezza.
Leo Longanesi

La miseria è una malattia. Inutile ammirarla, parlarne, ed è pericoloso volerla curare. Starne lontani dal contagio è tutto quanto una persona saggia deve fare.
Ennio Flaiano

domenica 19 febbraio 2012

Legami da spezzare Azione politica e azione non-violenta


Pubblicato su Ippogrifo 6- Inverno 2011

 

 Premessa

Trovare una forma di associazione che difenda e protegga,mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti non ubbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima
Jean-Jaques Rousseau, Il contratto sociale, 1762

Il mondo, sempre più piccolo e allo stesso tempo sempre più parcellizzato, sembra essere alla disperata ricerca di un nuovo contratto sociale, per legare insieme i fili delle relazioni comunitarie.
La democrazia e la dittatura sono oggi concetti fluidi a volte persino opinabili, se accade che i dittatori vengano lodati come democratici e i democratici vengano trattati come tiranni. Le rivoluzioni sono un accadimento, come lo sono le elezioni, spostano potere, legittimano e delegittimano allo stesso tempo i legami civili, trasformano e distruggono il prima e non assicurano il dopo. La politica, soprattutto in questo tardo '900 e inizio nuovo millennio, è priva di grandi visioni prospettiche, attanagliata da sistemi economici inefficienti e prepotenti, tensioni nazionaliste, ortodossie religiose e approcci da Stato etico.
La primavera araba, così come lo furono le rivoluzioni colorate degli stati ex sovietici, è oggi l'emblema di un profondo ripensamento del metodo rivoluzionario.
Prima di legarsi bisogna perciò sciogliere alcuni nodi.

 

Il nodo slegato


Alessandro si fece condurre al cospetto del nodo, provò forse a tentarne la corda; o forse aveva già deliberato la sua soluzione: sguainò la spada, e recise a mezzo il nodo. Aveva ventitré anni , non aveva tempo da perdere, l'Asia sarebbe stata sua.
Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo, 1995

Il legame è ciò che serve a legare, è esso stesso il nodo che unisce.
Il legame ha due terminali, un inizio e una fine, un in mezzo.
In mezzo c'è un filo costituito da un intreccio di materia sociale, politica, economica. Il legame ha come antidoto la slegatura e il taglio.
Il nodo si taglia o si slega? La dicotomia recisione/scioglimento è corrispondente a violenza/non violenza, guerra/pace, sbagliato/giusto?
Pensare in questo modo la struttura del legame, e la sua risoluzione, porta dunque a dare un'accezione etica, diversa da un approccio pragmatico in cui è la sostenibilità delle relazioni a chiarire la dinamica della violenza e della non violenza nei processi politici.
La (in)sostenibilità dei legami politici, e la loro funzionalità materiale, è data dalla pazienza che vogliamo o possiamo investire per risolverli.
La politica è: uomini, mezzi e fini, per dirlo in tre parole. Ovvero, aggiornandola ad oggi, cittadini, legami, sostenibilità.
Proprio perché la politica è costituita da una moltitudine di connessioni che sono indipendenti dalla forma di governo, la realizzazione dei fini della polis o, se vogliamo usare termini oggi più in voga, della comunità, non dipendono dalla forma di governo quanto dalla capacità di governare la sostenibilità stessa delle relazioni.

Dittatura vs democrazia

Se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitario
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951.

La dittatura è una struttura di relazioni di grandissima efficienza. Ogni più lontano terminale comunitario (associazione, sezione di partito, circolo ricreativo, luogo di culto, luogo di lavoro o di svago) è strettamente legato al potere. Anzi, ne costituisce, consciamente o meno, il sistema immunitario.
Il legame comunitario all'interno di una dittatura non ammette libertà e sistematicamente usa la violenza come medium, come collante che, nella sua applicazione quotidiana, diventa sinonimo di terrore.
Uno Stato totalitario, etico e necessariamente sociale, individua un nemico, una diversità, e, attraverso il processo del consenso e dell'immedesimazione di massa, instaura legami omologanti che tendono ad escludere le eccezioni che diventano il pericolo identitario, il potenziale distruttore dei legami politici del regime.
La comunità diventa massa, Popolo e dunque Stato, perdendo ogni interesse a legami sociali diversi da quelli finalizzati al bene comune dogmatico. Così l'amore è funzionale allo Famiglia, l'educazione alla Cultura, il lavoro al Progresso, la religione alla Chiesa, la società alla Patria, il diritto alla Verità, il territorio alla Guerra. Il cittadino infine è funzionale allo Stato e non il contrario.

 

L'esempio perfetto

Lo statalismo è la forma superiore che assumono la violenza e l'azione diretta trasformate in norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono autonomamente.
La ribellione delle masse, Josè Ortega Y Gasset

I regimi dittatoriali trasformano il legame sociale, in funzione del potere carismatico, in comando, ordine e infine in asettica direttiva, circolare, decreto.
L'ordine, che costituisce il legame stesso ed è sempre banalmente violento è distribuito burocraticamente fra l'intera popolazione in una efficacissima riduzione ad inezia di ogni piccola azione.
La deresponsabilizzazione in una catena di comando lunga, complessa e ritualizzata attribuisce direttamente alla Volontà del Popolo, incarnata dal dittatore stesso, la responsabilità. Questo secondo passaggio autorizza tutti ad essere sollevati dalla responsabilità personale, individuale, in nome della più ampia e condivisa Gleichschaltung (sincronizzazione, coordinamento), così come la chiamavano i nazisti.
Verrebbe da dire che i legami, così concepiti, sono sempre politici e sempre violenti e che ognuno ha fatto solo quello che gli è stato ordinato di fare.

 

Libertà è violenza: un ossimoro?

L'ottimista proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il pessimista teme che sia vero
James Branch Cabell, The Silver Stallion, 1926

La domanda è: come liberarsi della violenza intrinseca nei legami politici (dei regimi)?
Una qualsiasi prospettiva non-violenta della transizione dei regimi da dittatoriali a democratici sconta il dogma: la violenza chiama violenza.
Bisogna allora intendersi sui termini violenza e non-violenza. Affrontare il problema dal punto di vista teorico, dimenticando che la politica è soprattutto prassi comunitaria e non solo etica e morale, porta ad allontanarsi dall'essenza di ciò che più correttamente dovremmo chiamare semplicemente Politica.
Bisogna ripartire dal legame e dalla sua funzione di struttura portante dell'azione politica, insomma ritrovare la democrazia (rappresentativa).
La democrazia funziona su connessioni deboli, continuamente e volontariamente modificabili. É la sua forza e si chiama contratto sociale ed è condiviso attraverso le leggi, le rappresentanze e sopratutto la delega.
Le elezioni slegano i cittadini da ogni subalternità con il proprio rappresentante, gli elettori non perdono responsabilità ma la delegano. Non è un ideale bene comune a rappresentare la comunità, la polis, ma è l'eletto fino al momento in cui smette di essere votato. Almeno così dovrebbe essere.
Il regime democratico trasferisce porzioni di potere secondo criteri condivisi, le elezioni, e resiste fino a che tutti possono sperare di esercitare, a tempo determinato, il potere.
Per questo la democrazia è sostenibile, contrariamente alla dittatura. Perché i suoi legami non sono fondati sull'imposizione, sulla sudditanza, sulla convenienza e sulla sopravvivenza, ma si basano sulla mutabilità, sulla contrattazione, sulla condivisione e il riconoscimento del bene comune.
La democrazia sopravvive agli uomini che la rappresentano, la dittatura assai difficilmente può vantare la stessa longevità.

 

Rivoluzioni e conservazioni

Il colpo di stato, invece, è politicamente neutro, e non esiste alcuna presunzione che, dopo la conquista del potere, si seguirà una particolare politica.
Strategia del colpo di stato, Edward Luttwak ,1972

Quali sono le armi per modificare, sciogliere e recidere i fili che legano il potere alla repressione? Dove sono i terminali delle connessioni? Un organismo complesso come uno Stato può permettersi di perdere legami senza morire?
Vale la pena dissanguare, e non solo metaforicamente, uno Stato per ricostruire da zero i legami comunitari, per riscrivere un nuovo contratto sociale?
Dunque la Libertà è necessariamente violenza?
Cosa succede in un paese quando le forze in campo decidono di cambiare le regole, ovvero di cambiare regime, cosa succede quando dalla dittatura si vuol passare alla democrazia?
La conservazione del potere è la caratteristica principale dei regimi totalitari. Finché il legame politico non viene modificato, controllato e addomesticato il potere non si sposta.
Sciogliere le connessioni con il passato (regime) è sempre una rivoluzione ed è sempre e comunque tranciante, modificante e un cambio di potere non certifica che il risultato sia buono o cattivo.
Le rivoluzioni possono cadere dall'alto, imponendo un nuovo potere, o possono nascere dal basso, rimontando e ricostituendo la struttura politica. Questa schematizzazione semplicistica ha avuto nella realtà storica molteplici variabili, più o meno elitarie, più o meno popolari o militari. É una questione di potere, una traslazione di potere da un gruppo ad un altro, da una persona ad un'altra, da una classe ad un'altra: rivoluzione, pronunciamiento, putsch, guerra di liberazione, insurrezione, rivoluzione, la sostanza non cambia.
Una tabula rasa su cui riscrivere i nuovi contratti comunque dev'essere preparata.

 

La non-violenza è un metodo

La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.
Karl von Clausewitz, Della Guerra, 1834

La non-violenza è un metodo, prima ancora di una filosofia, e come tale ha bisogno di studio, applicazione e disciplina. Esattamente come la guerra.
Non vi sono metodi immorali, ma azioni e politiche immorali si.
Dunque è evidente che non si può imputare al metodo il risultato, come non si può accusare i mezzi dei fini perseguiti.
Il '900 ci ha raccontato che proprio a causa delle migliori intenzioni si sono perpetrate le peggiori nefandezze, ci ha raccontato che la guerra è un metodo efficace ma terribilmente costoso, anche in termini di legami sociali lacerati e mai ricostruibili.
Perché allora scegliere un metodo chiamato non-violenza?
Perché i metodi di Gandhi, Martin Luther King, Lech Walesa, Gene Sharp e dei nostri Danilo Dolci e Aldo Capitini sarebbero più efficaci di quelli di Charles De Gaulle, Malcom X, o dei nostri Giuseppe Garibaldi o Sandro Pertini?
Le azioni di tutti loro sono state modificanti, distruttive e rivoluzionarie. Quando parliamo di cambio di stato dello Stato presupponiamo che la non-violenza non sia pacifismo così come la guerra non sia bellicismo.
La non-violenza è logorare, la guerra è tagliare. La prima usa la pazienza al fine di sciogliere il nodo scorsoio da cui intende liberarsi. Un gioco pericoloso perché come tutti sanno i nodi più tiri più si stringono.
La guerra, d'altra parte, tende ad usare un'ascia per tagliare un filo da pesca...

 

Azione politica, una questione di strumenti e parole

L'azione non violenta è una tecnica per condurre conflitti, al pari della guerra, del governo parlamentare, della guerriglia. Questa tecnica usa metodi psicologici, sociali, economici e politici. Essa, è stata usata per obiettivi vari, sia "buoni" che "cattivi"; sia per provocare il cambiamento dei governi sia per supportare i governi in carica contro attacchi esterni. Il suo utilizzo è unicamente responsabilità e prerogativa delle persone che decidono di utilizzarlo
Gene Sharp, CORRECTIONS, An open letter from Gene Sharp, 2007

Chi usa la parola non-violenza sa di fare in Italia un'operazione che assorbe i concetti, i retaggi culturali e sopratutto dimostra una profonda ed inequivocabile vena elitaria.
Il nostro Paese non è un Paese per non-violenti, forse perché non è uno Stato compiutamente democratico, ne definitivamente dittatoriale. La non-violenza ha bisogno di chiarezza, puntualità e pazienza, doti che forse oggi (?) non siamo in grado di esprimere.
Per aggirare l'ostacolo dovremmo avere il coraggio di parlare più prosaicamente di azione politica o ancora meglio, come fa Gene Sharp, di political defiance, ovvero dimenticare le ragioni filosofiche e concentrarci su quelle pratiche.
La parola defiance è talmente ricca da essere essa stessa un manuale di azione politica non-violenta: resistenza, opposizione, non complicità, disobbedienza, insubordinazione, dissenso, renitenza, sovversione, ribellione; oltraggio, disattenzione, rifiuto, insolenza.
Proprio l'azione politica va a sciogliere quei legami insostenibili, perversi e immobili che costituiscono la trama di un regime.
Ogni parola diviene strumento applicativo e non mera manifestazione d'intenti, ed è in questo che la (non-violenta) azione politica riesce ad essere assai più efficace della (violenta) azione politica.
Per tagliare la trama del regime si deve costituire una nuova rete di legami solidi, e al contempo elastici, in grado di sostenere durante la lotta i cittadini e allo stesso tempo preparare un nuovo tessuto sociale e un nuovo contratto democratico.
Gli strumenti sono fondamentali per legare i cittadini. Come la prima guerra mondiale ha costituito il primo vero terrificante banco di prova delle masse e dei regimi totalitari, l'89 ha messo alla prova gli individui democratici e continua, in un fenomeno di lunga durata, a sollecitare l'applicazione di metodi di disobbedienza civile.
Come fare azione politica, sapere che esistono metodi, tecniche, manuali è rassicurante per chi, come sempre più spesso oggi pare accadere, ha desiderio di diventare nuovamente azionista del proprio futuro e della propria comunità. Per chi voglia tornare a riprendersi la delega politica, troppo spesso considerata in bianco.
Le primavere arabe, così come le rivoluzioni colorate (le uniche che anagraficamente posso ricordare) hanno dimostrato che nulla è inscalfibile, nemmeno piazza Tienanmen.

 

Bibliografia sragionata.

L'uomo libero conferisce alle armi il loro significato
Trattato del Ribelle, Ernst Jünger

Jean-Jaques Rousseau, Il contratto Sociale, Milano 2010
Karl von Klausewitz, Della Guerra, Milano 1970
Amartya Sen, La ricchezza e la ragione, Bologna 2000
Amartya Sen, Globalizzazione e libertà, Milano 2002
William Volmann, Come un'onda che sale e che scende, Milano 2007
Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, Palermo 1995
José Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, Milano 2001
Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Milano 2002
Gene Sharp, Come abbattere un regime Manuale di liberazione nonviolenta,Milano 2011
Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Milano 1990
Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta voll. I-II-III, Torino 1985
M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Torino 1996
Edward Luttwack, Strategia del colpo di stato. Manuale pratico, Milano 1983
Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, Milano 1992
Jean Marie Muller, Manuale di azione nonviolenta per la Lega Nord, Venezia 1993
Morjane Baba, Guerrilla Kit, Milano 2005
Alberto Martinelli e Alessando Cavalli a cura di, Il black panther party, Torino 1974
Ian Kershaw, L'enigma del Consenso, Bari 2007
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino 2009