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martedì 21 dicembre 2010

e poi ditemi che non avevo ragione...


Mi sono sempre stati sul cazzo. Sul serio, non li reggevo. Arrivavano belli belli, quel tanto consumati dalla vita, sigaretta in mano e voce suadente. Aprivano le loro fogne e via discorsi di lotta dura senza paura, manifestazioni e sprangate, collettivi studenteschi e voti politici, assemblee fiume e letture pallose.

Non li reggevo nell'85 quando ci davano dei disimpegnati, dei fascistelli qualunquisti, dei ragazzini immaturi e borghesi (nient'affatto rivoluzionari). nessuna tolleranza per le nostre idee, per le nostre piccole, ma vere e autogestite, rivoluzioni quotidiane. Manifestare per i cessi che ti cadono addosso non era abbastanza anti sistema. Sprangarsi di botte per il libretto rosso si.

Se non leccavi loro il culo, sbavando agli epici racconti del 77 bolognese (padovano, trentino, romano, milanese bastava che fosse un po' autonomo o neofascista era uguale), eri una merda, un bambino cresciuto a nesquik e goldrake. Dovevi prostrarti alla fortuna loro capitata di essere parte di un grande movimento rivoluzionario, alle vicinanza con epici assassini, con cui passare le notti a costruire un mondo migliore.

Io che nel 77 ero vivo, ricordo la mia infanzia felice, ma anche le sirene a Roma, i blocchi di polizia, la televisione con un morto al giorno. Gente che doveva morire, secondo loro: poliziotti, giudici, sindacalisti, giornalisti, orefici, direttori di banche, sportellisti, guardie giurate, militari, carabinieri. Tutti nemici di una qualche rivoluzione. E poi persone normali, capitate per caso in stazione, in treno, in aereo o aereoporto, in piazza a passeggiare o in banca a versare demoniaci contanti (gli stessi che a fuciliate rubavate dai porta valori).

E poi i ragazzi loro coetanei finiti sprangati a manca e a destra, bruciati in casa o rincorsi in vespa. Tutti degni di morire per una qualche rivoluzione.

Mi stavano sul cazzo, ancor di più dieci anni dopo, arrivavano belli belli, brizzolati e sempre con la cicca in mano, cambiava marca però, a fare i creativi, pacifisti e moderati.
Famigliole allargate, tolleranti, amichevoli, aperte. Di punto in bianco la vostra rivoluzione era diventata "culturale". La musica che solo voi avevate capito, il jazz elettrico, due coglioni di cantautori maturi, il folk, ma quello vero, popolare, il rock impegnato, impegnativo direi più che impegnato. L'arte che solo voi avete intuito. Di colpo tutti amici di Pazienza, lettori di frigidaire, di stampa alternativa, tutti ai campi hobbit (peccato chegli alternativi e non violenti erano i primi, minoritari loro si, che umiliavate). Tutti casa e biennale. La letteratura: tutto un fiorir di autori sconosciuti, e poi i dissidenti (che al solo pensiero vi procuravano in gioventù mal di denti), Kundera e altri poveracci che la rivoluzione ve l'avrebbero volentieri regalata.
La spranga era diventata un pennello con cui adornare le vostre cazzatte. Ma pur sempre cazzate rimanevano.
Voi nell'89 eravate incerti. Sto di quà o stò di là? Io no.

Infine oggi me li ritrovo al potere quella generazione di fiorr fiore di "rivoluzionari".
E mi stanno, se mai fosse possibile, ancora più sul cazzo. Questi fulgidi esempi di democrazia a dettar legge a le nuove generazioni dopo aver rovinato, con le loro stronzate, la mia generazione. Da rivoluzionari a servi.
L'unica vera rivoluzione è non essere servi della "rivoluzione".

Cito qui solo quelli al governo, sapendo che se ci fossero altri al governo rischieremmo di dire cose molto simili.

La Russa (classe 1947, un po' anziano), Gasparri classe 1956, Alemanno classe 1958, e quel genio incredibile di Maroni classe 1955.

Per maggiori informazioni sulle loro vite cito a titolo di esempio Wikipedia...


"Il 12 aprile 1973, quando era uno dei leader del Fronte della Gioventù di Milano, nella manifestazione organizzata dal Movimento Sociale Italiano contro quella che veniva definita "violenza rossa" furono lanciate due bombe a mano Srcm, una delle quali uccise il poliziotto di 22 anni Antonio Marino. La Russa fu indicato come uno dei responsabili morali dei lanci di bombe."

Alemanno entra da giovanissimo in politica, nelle organizzazioni giovanili del MSI-DN diventando segretario provinciale romano del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile missino. Negli anni '80 è uno dei leader della corrente rautiana del FdG, insieme a Marco Valle, Riccardo Andriani, Flavia Perina, Antonello Ferdinandi, Paola Frassinetti e Fabio Granata che si contrapponeva all'ala almirantiana guidata da Gianfranco Fini. In quella fase politica tormentata da violenze nel 1981 fu arrestato, insieme a Sergio Mariani, per poi essere subito scarcerato e non indagato successivamente per le violenze nel quartiere di Castro Pretorio di fronte ad un bar denominato "La Gazzella" nel tentativo di aggredire lo studente Dario D'Andrea.

Successivamente nel 1982 fu di nuovo arrestato con l'accusa di aver lanciato una bomba molotov di fronte l'ambasciata dell'unione sovietica. Dopo otto mesi di carcere preventivo sarà completamente scagionato e liberato.

MARONI Inizia la sua esperienza politica nel 1971 militando in un gruppo marxista-leninista di Varese e poi fino al 1979 è nel movimento d'estrema sinistra Democrazia Proletaria

I fatti di via Bellerio e la condanna per resistenza a pubblico ufficiale

Il 12 agosto 1996 il Procuratore della Repubblica di Verona Guido Papalia avviò delle indagini sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere un'organizzazione paramilitare tesa ad attentare all'unità dello Stato(articoli 241 e 283 del Codice penale)

Il 18 settembre viene così disposta la perquisizione delle residenze di Corinto Marchini, capo delle "camicie verdi", Enzo Flego e Sandrino Speri, dell'ufficio di Speri nella sede leghista di Verona e di un locale della sede federale di Milano della Lega Nord, ritenuto nella disponibilità dello stesso Marchini. Le operazioni iniziano alle 7 del mattino e alle 11 due pattuglie della Digos di Verona si presentano alla sede della Lega di via Bellerio a Milano con Marchini a bordo.

Qui la Polizia di Stato (Digos di Verona e di Milano, Ufficio prevenzione generale di Milano) incontra sul posto un'opposizione per cui i poliziotti «decidevano di rivolgersi per istruzioni al Procuratore della Repubblica di Verona. Tornavano, quindi, posto nel pomeriggio con il provvedimento integrativo di perquisizione e l'ordine di procedere, trasmesso via telefax, dalla competente Procura di Verona». Nel pomeriggio la Polizia ha un nuovo decreto di perquisizione e «dopo una prima contestazione sulla autenticità del decreto di perquisizione trasmesso da Verona, gli operanti, entrati nell'androne dell'edificio, per eseguire il provvedimento dovettero affrontare e superare un cordone umano formato» da militanti e dirigenti leghisti fra cui Maroni, «e da altri simpatizzanti, postisi innanzi alla scala per impedire la salita degli uomini della Polizia. Superato tale ostacolo, le forze dell'ordine salirono le scale inseguiti e ostacolati dagli astanti». Nel corso del tragitto verso la stanza di Marchini «la Polizia dovette affrontare l'assembramento di persone che si era formato, accompagnata da un coro di insulti» promossi da Borghezio, oltre a «numerosi atti di aggressione fisica e verbale nei confronti dei pubblici ufficiali» compiuti da Maroni, Bossi e Calderoli, «episodi tutti documentati dai filmati televisivi».

«Il primo vero e proprio episodio di violenza» fu compiuto da Maroni che «tentò di impedire la salita della rampa di scale (...) bloccando per le gambe gli ispettori Mastrostefano e Amadu».

Quando finalmente ispettori e agenti furono «pervenuti di fronte alla porta del locale da perquisire, gli operanti rinvenivano un cartello cartaceo la cui indicazione dattiloscritta specificava "Segreteria politica - Ufficio on.le Maroni". Il Dott. Pallauro, dopo un ulteriore contatto telefonico con il Procuratore della Repubblica di Verona che dava ordine di portare a termine l'operazione, provvedeva allo sfondamento della porta, operazione che tuttavia era ostacolata violentemente» da Maroni, Bossi, Borghezio, Capanni, Martinelli e Calderoli «che aggredivano principalmente il Dott. Pallauro e l'ispettore Amadu, il quale veniva stretto fra gli imputati Maroni, Martinelli e Bossi, che lo afferrava dal davanti, mentre il Martinelli lo prendeva alla spalle. (...) La vicenda vedeva da ultimo l'on.le Maroni subire un malore e venire disteso a terra dall'agente Nuvolone, per poi essere avviato al pronto soccorso ove gli venivano riscontrate lesioni per le quali sporgeva querela».

Ne nacque così un procedimento penale per resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 del codice penale) perché «gli insulti e gli atti di resistenza e violenza non sono in alcun modo atti insindacabili per i quali possa valere la prerogativa parlamentare».

Maroni sostenne che «fu aggredito e non aggredì gli esponenti della Polizia». Fu invece dimostrato «la non veridicità dell'assunto del Maroni» essendo «documentato che nella ascesa della rampa delle scale trovandosi a terra, e non per le percosse ricevute, tratteneva con la forza gli operanti afferrando la caviglia dell'ispettore Mastrostefano e poi le gambe dell'ispettore Amadu». La magistratura appurò poi che Maroni «era caduto in terra per un improvviso malore nella fase finale dell'accesso degli operanti nella stanza da perquisire, circostanza attendibilmente confermala dalla teste Nuvoloni della Polizia che lo aveva soccorso, e forse colpito anche involontariamente in tale posizione nella ressa creatasi luogo o già raggiunto, presumibilmente, da spinte nel corso della vicenda che vedeva un accalcarsi incontrollato di persone, compresi giornalisti e simpatizzanti della Lega Nord».

Ad ogni modo «i pubblici ufficiali erano comunque tenuti a portare a compimento l'ordine loro impartito. Non era discutibile la legittimità della perquisizione a carico del Marchini nella sua stanza sita nell'immobile anche sede del partito politico, dove lo stesso Marchini accompagnava gli operanti, perquisizione non limitata alla sua abitazione, ma a tutti gli altri luoghi nella sua disponibilita».

In definitiva «la resistenza» di Maroni e degli altri leghisti «non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto adopera dei pubblici ufficiali». In modo particolari gli atti compiuti da Maroni sono stati ritenuti «inspiegabili episodi di resistenza attiva (...) e proprio per questo del tutto ingiustificabili».

Il 16 settembre 1998 Roberto Maroni fu così condannato in primo grado a 8 mesi.

La Camera dei Deputati ha deliberato, il 16 marzo 1999, l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, dei comportamenti tenuti dai parlamentari in occasione dell'opposizione alla perquisizione. Ma «la Corte d'appello ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e la Corte costituzionale (sentenza n. 137 del 2001) ha dichiarato che non spettava alla Camera deliberare che i fatti per i quali era in corso il procedimento penale concernessero opinioni espresse dai parlamentari nell'esercizio delle loro funzioni».

La Corte di appello di Milano il 19 dicembre 2001 ha confermato la decisione di primo grado riducendo la pena a 4 mesi e 20 giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio era stato abrogato.

La Camera dei Deputati il 4 febbraio 2003 ha allora chiesto alla Corte Costituzionale di «dichiarare che non spetta all’autorità giudiziaria (ed in particolare alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verona) di disporre e di far eseguire la perquisizione del domicilio del parlamentare Roberto Maroni, con il conseguente annullamento dei decreti di perquisizione locale e di sequestro emessi dalla Procura il 17 e 18 settembre 1996 - nella parte in cui, senza autorizzazione della Camera dei deputati, si è disposta la perquisizione del locale all’interno della sede della Lega Nord di Milano nella disponibilità di Corinto Marchini, ancorché lo stesso fosse nell’effettiva disponibilità dell’on. Roberto Maroni - e di tutte le operazioni di perquisizione svoltesi il 18 settembre 1996 in esecuzione dei decreti stessi».

Il 30 gennaio 2004 la Corte Costituzionale darà ragione alla Camera perché davanti al cartello "Segreteria politica - Ufficio on.le Maroni" «l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto sospendere l'esecuzione della perquisizione e chiedere alla Camera la necessaria autorizzazione; in alternativa - ove avesse nutrito dubbi sull'attendibilità del contenuto dei cartelli - avrebbe potuto disporre gli accertamenti del caso, per eventualmente procedere contro chi quei cartelli aveva collocato».

Dieci gioni dopo, il 9 febbraio, la Cassazione ha confermato per Maroni la condanna d'Appello commutandola però in una pena pecuniaria di 5.320 euro.

sabato 18 dicembre 2010

Recensione Ippogrifo- Paola Liberace Contro gli asili nido

Paola Liberace

Contro gli asili nido


Editore Rubbettino
Collana Problemi aperti
Data uscita 22/07/2009
Pagine 88
EAN 9788849824216

10,00

Ci sono libri che suscitano dubbi, provocano ripensamenti, altri che confermano certezze, consolidano convinzioni.

Preferisco sempre di più i primi ai secondi.

Il breve, denso, pamphlet di Paola Liberace, giornalista, blogger e madre di due figli, nell'incipit si chiede “perché una mamma che lavora, soddisfatta utente di un buon asilo nido privato, dovrebbe scrivere un libro contro gli asili nido?”

Già, perché, verrebbe da chiedersi di conseguenza, un genitore che lavora, soddisfatto utente di un asilo nido pubblico, dovrebbe recensire un tale libro?

I motivi sono tanti e ogni pagina letta ne ha aggiunto di nuovi.

L'aspetto politico

Iniziamo con cosa non è il libro: non è una crociata libertaria sul lassaiz faire individualista, ne un'acritica critica anti marxista. É, a discapito del titolo, un excursus storico, legislativo e statistico sull'offerta delle strutture prima infanzia in Italia,ed è soprattutto un'analisi impietosa sul fallimento della politica familiare, della conciliazione, della maternità e della natalità.

La sensazione che rimane dopo un pomeriggio di lettura è che il nostro pensiero politico contemporaneo (italiano intendo) sia lontanissimo da qualsiasi principio liberale di autodeterminazione delle scelte individuali e familiari, sia, sempre il nostro pensiero politico, altrettanto lontano da approcci socialisti e riformisti, capaci di attuare principi di sussidiarietà, solidarietà ed efficienza di un welfare state moderno ed universalistico.

Nonostante i tentativi di inghiottire l'amaro in bocca, il nostro pensiero politico, e, di conseguenza, il nostro apparato politico, statuale, mi sembra ancorato ad un familismo arcaico e incongruente con le evoluzioni sociali, lavorative e culturali degli ultimi decenni. Mi sembra legato ad una concezione del mercato del lavoro keinesiana, quando dovrebbe essere liberista, e liberista quando dovrebbe essere keinesiana, liberista con i precari e keinesiana con monopolisti, infine ad una concezione dei processi decisionali democratici strumentali, localisti ed autoreferenziali.

In questo contesto tutte le scelte, come spesso accade in Italia, appaiono mezzo giuste o mezzo sbagliate, soprattutto non sembrano mai esaustive ne tanto meno risolutive.

Il libro mi ha stimolato lo spolvero di vecchi e desueti classici del pensiero politico: Rossi, Rosselli, Einaudi, Gobetti, Salvemini. L'Italia pare abbia attuato, banalizzandola ed esautorandola di ogni significato positivo, la grande utopia del socialismo liberale che tanta speranza diede ad una minoritaria parte dell'antifascismo italiano. Il peggio del socialismo e il peggio del liberalismo sono in Italia espressione di molte delle politiche di welfare, che oggi, grazie alla crisi economica, stanno mostrando tutta la loro inadeguatezza.

Il ruolo della politica, nelle azioni e negli interventi che riguardano la vita degli individui e delle famiglie è fondamentale, ed appare imprescindibile strumento per arrivare ad uno Stato moderno, efficiente e rispondente alle richieste dei cittadini.

Ma è veramente così? Veramente lo Stato si è preso in carico questo ruolo? Veramente lo Stato deve prendersi in carico la famiglia, la genitorialità, l'educazione fin dalla prima infanzia, fino al lifelong learning?

Lo Stato deve veramente occuparsi dei propri sudditi dalla culla alla tomba? Deve applicare un Welfare fortemente comunitario e relazionale che interviene nell’intero ciclo di vita – dal concepimento alla morte naturale - in modo da rafforzare l’autosufficienza della persona e prevenire il formarsi del bisogno, così come auspicò il Libro Bianco di Sacconi un anno fa?

Oppure come sollecita Paola Liberace in conclusione del libro: essere genitori è una questione di libertà e di responsabilità: non si può coltivare la seconda senza tutelare la prima, e aggiungerei: essere cittadini è una questione di libertà e responsabilità?

Il bambino dove lo metto? Dove lo metto chi lo sa?

Tu lo mandi al nido o hai qualcuno?” e chi è il qualcuno?

Oggi in Italia la famiglia è allargata, o meglio dire immobilizzata in una struttura composta da nonni, genitori, nipoti e solo tale forma pare assicurare una valida alternativa all'Asilo nido.

In realtà la cura dei figli è gerarchica: madre, tutto il resto.

Grande assente è il padre, volente o nolente. La cura è femminile, il reddito maschile. Questa è la realtà, sottaciuta e non affrontata, di tutta l'analisi dell'autrice.

I nonni sono una risorsa, e lo sono ancor di più se non decrepiti, pensionati baby, attivi e svegli e soprattutto vicini.

Verrebbe da dire: nulla di nuovo sotto il sole. La bella famiglia comunitaria, le generazioni che parlano, condividono spazi e saperi. Verrebbe da dire che così non è. La famiglia dove nonni, nipoti, cugini, fratelli, sorelle, vicini, parenti di generazioni ed età molteplici non esiste più. I nonni sono quasi sempre con un solo nipote e non ci sono cugini. Le variabili della modernità lavorativa non permettono tanta socialità comunitaria. I nonni girano con le carrozzine, custodiscono in casa i bimbi e poco più.

Esistono poi le soluzioni “Mary Poppins” ovvero le baby sitter praticamente perfette. Soluzioni che costano più del nido, quanto uno stipendio, e che corrispondono al criterio: una persona davvero qualificata - magari italiana, magari con il diploma di puericultrice, magari pagandole i contributi (p.7). Assai più comune è rivolgersi a giovani ragazze simpatiche, carine, magari alla pari, ma la puericultura rischia di impattare con l'uso smodato dei social network. Oppure si possono prendere due piccioni con una fava: la colf. Può dare un occhio al bambino mentre rassetta casa, è una persona di fiducia, disponibile. Spesso il lavoro di cura è extracomunitario, o neocomunitario, con risultati simili ai paradossi delle badanti: pazienza se parla male italiano e con il pupo si limita a lunghe, silenti passeggiate in carrozzina senza dare un cenno di presenza (p.8).

Dunque il nido è la soluzione: ambiente sicuro e controllato, crescita relazionale del bambino, professionalità del personale, il costo affrontabile se pubblico, più impegnativo se privato. Insomma perfetto, pubblico o privato che sia.

Ma i posti sono sufficienti? Ad essere buoni arriviamo, così dice puntigliosamente la Liberace, all'11% della copertura sulla fascia 0/3 anni, in regioni e provincie come la nostra un po' di più, comunque lontanissimi dal promesso obiettivo del Trattato di Lisbona (dovrebbero raderla al suolo quella città per tutti gli obiettivi che si ostina a farci mancare) del 33% entro il 2010. Certo non possiamo aspirare al 64% della Danimarca e tanto meno al 29% della Francia, eppure a destra e a manca si promette:

prosecuzioni del piano di investimenti in asili aziendali e sociali (PDL) l'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno (PD).

Lavoro e famiglia: due termini, una soluzione.

La partita della famiglia, o meglio della natalità, si gioca nei primi mesi di vita e in termini sempre femminili. L'assunto pare essere: se riesco a tornare a lavoro entro l'anno sono salva.

Stiamo parlando dell'esercito delle volenterose impiegate, come cinicamente le chiama l'autrice, di donne che esaurito il bonus temporale della maternità, corrono ai ripari presidiando il posto di lavoro, e affidando( potrebbero oggi fare altrimenti?) i piccoli di meno di un anno al nido, ai nonni, etc.

Ciò comporta un enorme sforzo di conciliazione integralmente (o quasi) in carico alle donne, comporta acrobatiche peripezie fra nidi, baby sitter e nonne. La soluzione che ci si ostina a cercare è riassunta in poche ed efficaci parole: flessibilità di orari dei nido, servizi integrativi, aperture estive, orari lunghi. Conciliare la famiglia con il lavoro e non il contrario.

Siamo proprio sicuri che sia questa la soluzione?

L'esercito delle donne volenterose impiegate è frutto di lotte per l'emancipazione, per le pari opportunità, per l'eguaglianza di trattamento e salario. La Liberace ci riporta amaramente alla realtà: 20% di donne in posizione manageriale (dati ISTAT 2006), le donne dirigenti sono il 24,5% per di più concentrate nella pubblica amministrazione, e volendo soffrire si continua con differenze nell'ordine del 24% fra retribuzioni maschili e femminili (a favore dei primi ovviamente).

Questo quadro non pare semplificarsi e l'uso degli ammortizzatori sociali, legati alla crisi di questi ultimi due anni, sembra allontanare ancora di più le donne da un mercato del lavoro “conciliante”.

Quello che dovrebbe essere una libera scelta di vita, passare i primi mesi di vita con il proprio figlio, rischia di diventare l'unica soluzione economicamente sostenibile in una famiglia che diventa da plurireddito a monoreddito precario.

Politiche di conciliazione: dov'è il problema?

Il principale fattore di ostacolo tra famiglia e lavoro non è la scarsa disponibilità di posti negli asili nido, ma la strutturazione rigida del lavoro, e l'impossibilità di variare o ridurre l'orario lavorativo (p. 21). Con la forza dei numeri e delle indagini Istat citate, l'autrice ci porta in quella che, dal suo punto di vista liberale, appare essere il vero punto carente del sistema, il nodo irrisolto e non affrontato, delle politiche lavorative, e della famiglia in Italia: la debolezza del mercato del lavoro e del sistema delle opportunità di flessibilità.

Parlare oggi di flessibilità in Italia è pericolosissimo.

Flessibilità è, o meglio è stato fatto diventare, sinonimo di precarietà, ed affidare al precariato la soluzione delle politiche di conciliazione rasenta la bestemmia. Eppure se, come ci invita a fare l'autrice, usciamo da schemi dialettici rigidi e affrontiamo la questione in termini seri e, soprattutto, onesti ci accorgiamo che proprio le donne sono le prime a soffrire di questo paradossale errore.

Il posto fisso è rigido, inchiodato a orari e tempi inconciliabili (se non con un nido ultraflessibile), eppure oggi appare l'unica àncora di certezza della vita familiare.

Il part time è inutilizzato, non richiesto e disincentivato, i congedi un misterioso strumento, il telelavoro eretico, il jobsharing (orribile termine per dire fare in due il lavoro di uno) un mostro in mano ai padroni del vapore e via discorrendo.

Piuttosto si danno bonus una tantum per pagare uno o due mesi di asilo, piuttosto si spendono milioni di euro per raggiungere punti o frazioni di punto percentuali nell'impossibile scalata a Lisbona, piuttosto si escogitano sostegni ed integrazioni al reddito, agevolazioni per far lavorare di più le donne e permettere loro di lasciare i figli ad altri. L'importante è che se hanno un lavoro lo mantengano come prima, più di prima, ma non meglio di prima.

Le donne si preoccupano del ritorno dell'oppressione patriarcale, che le aveva segregate in casa, non battono ciglio di fronte alla segregazione impiegatizia, che la veloce evoluzione delle tecnologie rende ancora più obsoleta della prima- e che per giunta le ha obbligate a disfarsi dei figli.(p.54).

Nonostante la critica ad alcuni aspetti del femminismo, l'autrice ripercorre il solco delle lotte di liberazione femminile più oltranziste degli anni '70, e lo fa abolendo il maschio, dimenticando che le politiche di conciliazione non sono più solo un problema femminile, ma sono sempre più una questione trans-gender, che interessa e coinvolge l'intera struttura delle relazioni sociali.

La Liberace solletica in conclusione la nostra fantasia citando le socialdemocrazie e le liberaldemocrazie: Danimarca, Inghilterra, Francia, DDR. Critica l'approccio universalistico e propone soluzioni differenziate: congedi lunghi per donne e uomini, part time obbligatori, posticipi pensionistici legati a lunghi periodi congedo non retribuito, social networking da casa, lavoro condiviso, banca del tempo e via discorrendo.

Fantasie, fantasticherie per il nostro elefantiaco stato.

Il massimo che l'elefante partorì fu un topolino:

Piccoli ma significativi aggiustamenti nel rigido orario di lavoro possono consentire a molti [sic] la conciliazione tra tempi di lavoro e di famiglia senza compromissione delle possibilità di carriera. (LA VITA BUONA NELLA SOCIETÀ ATTIVA , Libro Bianco sul futuro del modello sociale , maggio 2009 Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali)

Non è un paese per vecchi...

IPPOGRIFO 03 - NON È UN PAESE PER VECCHI?

Editoriale
Interrompiamo il dialogo

A cura di Andrea Satta e Laura Lionetti

Pordenone, domenica 1 aprile 2035
È notizia di questi giorni: in un piccolo Comune, in un quartiere periferico, i residenti hanno deciso di chiudere alcuni luoghi comunitari. Lo hanno fatto contro la volontà delle istituzioni, ma con il favore della popolazione.
Una scelta contro corrente, coraggiosa, frutto di un lungo percorso semiclandestino, un faticoso lavoro di alcuni cittadini, che oserei chiamare illuminati.

Una scelta che, come un fiume carsico, scompare e ricompare nel panorama italiano, un fiume la cui portata rivoluzionaria ancora non conosciamo. La situazione era diventata insostenibile da molto tempo, giovani e vecchi vivono gli stessi luoghi, gli stessi tempi, senza distinzioni, in un caotico e magmatico non luogo intergenerazionale.
È questa parola che da anni condiziona le scelte dei nostri amministratori in materia di lavoro sociale, di welfare, di comunità. Intergenerazionale è divenuto ormai il paradigma imprescindibile dell’agire quotidiano, nulla può essere fatto senza che questa diventi una condicio sine qua non.
Ogni iniziativa ha l’obbligo morale, prima ancora che normativo, di includere in termini intergenerazionali tutti i cittadini. Il dialogo fra generazioni è ormai prassi consolidata da decenni e nessuno pare oggi in grado di proporre alternative al modello vigente.
È giusto? Cosa significa realmente intergenerazionale?

Alcuni mesi fa ho visitato, accompagnato da un solerte amministratore, uno di questi luoghi e ne sono rimasto profondamente colpito.
Il mio cicerone mi ha spiegato come giovani, bambini e anziani lì giocassero insieme, che le associazioni, con la sede nella struttura e nate per volontà di alcuni abitanti del quartiere, fossero rigorosamente senza distinzione di età, e che queste ogni anno organizzassero feste, incontri, manifestazioni di solidarietà tutti insieme sempre.
Nell’ampio locale un gruppetto di ragazzi giocava a calcetto con i propri nonni e alcune ragazze discutevano, costruendo delle strane palle di stoffa, con delle vetuste signore.
Il calendario dello spazio comunitario prevedeva un inquietante incontro dibattito dal tema “Nuovi Social network: sono diventati classisti?”. Mi son fermato parlare con Gina, così si chiamava una ragazza fra le più impegnate, sconvolta dalla proliferazione di gruppi chiusi di giovani, che mi ha raccontato come sia sempre più facile trovare luoghi e situazioni di vero e proprio apartheid generazionale.
Ha usato questo vecchio termine che da anni non sentivo: apartheid. Ha continuato sempre più infervorata: «I vecchi si trovano fra di loro ed escludono i giovani e viceversa, lo scriva del pericolo che stiamo correndo!».
Raccontava di aver avuto un contatto con una piccola associazione informale di giovani e di aver cercato di coinvolgerli in un processo di comunitario. La risposta era stata secca e violenta: «Noi con i vecchi non ci vogliamo stare!».

Il sintomo di una profonda crisi del modello sociale, che negli ultimi vent’anni ha portato a condividere spazi, fondere iniziative e desideri, ad omologare aspettative, a scambiarsi esperienze, a vivere le stesse emozioni, è sempre più evidente soprattutto nei luoghi informali della rete e, lentamente ma inesorabilmente, nei luoghi del vivere quotidiano.
Gruppi di discussione, vilipesi e osteggiati dalle istituzioni, dagli educatori, dai politici, dagli intellettuali, propagandano, in modo sempre meno clandestino, la divisione, il ritorno agli scontri generazionali, ad un mondo in cui vecchi erano vecchi e i giovani giovani.
Quest’indiscussa mescolanza di età, l’approccio universalistico, intergenerazionale, omologante inizia oggi a mostrare la corda. Gli anziani, così come i giovani, non sanno più riconoscersi in un modello di riferimento proprio, identitario. Io stesso, che ho vissuto integralmente la mia vita lavorativa in questo contesto, ho oggi difficoltà a riconoscermi in una mia generazione. Si vive il tempo biologico senza soluzione di continuità, si è annullata in via definitiva l’età di mezzo, culturalmente indecente, una sorta di medioevo oscuro e indefinito stretto fra un’eterna giovinezza ed una giovanile anzianità. La domanda da porsi ora è: dove sono finiti gli adulti? A forza di parlare e dialogare fra giovani e anziani, fra meno giovani e meno anziani, abbiamo annullato ciò che Dante proponeva come «nel mezzo del cammin di nostra vita». Siamo sempre e comunque giovani, almeno fino alla morte.
Le classi di età tendono a sparire, rimangono come residuato concettuale arcaico, legato a riti di passaggio che la nostra società tende a rimuovere, o peggio, a slegare dal concetto di età.
La formazione, la stessa educazione, è ormai un concetto senza età, la scuola è infinita, l’apprendimento è continuo, lungo tutta la vita. Il lavoro è senza inizio e senza fine certa, il lunghissimo processo di deprecarizzazione, che fu avviato all’inizio della seconda decade del 2000, ha portato oggi a non essere più in grado di definire come e quando la nostra vita lavorativa si svolgerà. La famiglia, la procreazione, la cura dei figli è decontestualizzata, affidata a luoghi perfetti in cui il bambino impari il rapporto continuo e costruttivo con le altre età, in cui i conflitti generazionali siano appianati, risolti sul nascere, inibiti.
Chi si discosta da questo, chi cerca un’identità mutevole con il tempo, un’identità che cambia con il cambiare delle stagioni della vita, è considerato eretico, malato, asociale, svantaggiato, disagiato, a seconda di chi questi giudizi li esprime e di come lo fa.
La nostra società non ha più, da molti anni, scontri sociali, non ha più violenza giovanile e intemperanze senili, la nostra società è placidamente votata al dialogo senza aver più nulla di cui discutere e nulla da trasmettere.

Almeno fino ad oggi. (AS)


Nel 2008 la rivista Ippogrifo con il sostegno della Provincia di Pordenone e in collaborazione con l’Ass6, il Comune di Pordenone, le cooperative sociali Acli, Fai, Itaca, il liceo “Leopardi-Majorana”, hanno organizzato i seminari trasversali sul tema “La realtà e le prospettive del lavoro in rete”, rivolti a chi opera nella scuola, nei campi della salute e dell’assistenza, nella progettazione e amministrazione pubblica, conclusosi poi con un convegno e la pubblicazione di un numero di questa rivista.
I seminari hanno avuto la particolarità di far lavorare assieme persone che solitamente operano in servizi diversi (scuola, anziani, salute mentale, ecc.). In quell’occasione ci si è confrontati sulla questione della leadership e della crisi della leadership nelle istituzioni, sulla vaghezza del concetto di rete e la necessità di individuare dei dispositivi con cui calare nell’operatività quotidiana le idee di fondo.
Ci eravamo lasciati con la proposta di mettere in atto un dispositivo trasversale, a partire da una leadership più presente, che responsabilizzasse, monitorandone poi gli sviluppi, alcuni gruppi di operatori chiamati ad avviare percorsi di lettura del bisogno e di risposta alla domanda, che abbiamo chiamato “operatori di collegamento”.
Come siamo arrivati alla questione dell’inter-generazionalità?
Ci siamo arrivati attraverso l’incontro di pensieri, attraverso il fatto che i Piani di Zona tacciono, focalizzando infine quell’area dove forse è più visibile la difficoltà dell’incontro e quindi del collegamento; quell’area che rappresenta il dialogo fra le generazioni.
Sappiamo tutti che in realtà il discorso è molto più complesso. Viviamo in sistemi chiusi (servizi, generazioni, abitazioni, individui), sistemi che convivono numerosi e i cui codici non entrano mai in comunicazione e non si capiscono.
Ma ci deve pur essere una strada verso il cambiamento, almeno un sentiero verso il tentativo di un cambiamento… La riflessione si è approfondita nelle tre giornate di eventi, convegni, iniziative, film “Non è un paese per vecchi? Il dialogo (interrotto) tra le generazioni”, realizzate a Pordenone a gennaio 2010, da cui sono stati tratti alcuni degli articoli presenti in questo numero.
Allora, riprendendo le parole di Pier Giulio Branca, visto che non è un paese per vecchi, ma forse nemmeno per giovani, né per nessuno, una strada possibile è il ripensare la comunità, non solo come il contesto per gli interventi individuali o collettivi, né solo come una risorsa, ma anche come il soggetto e l’oggetto dell’intervento.
I soggetti cambiano le condizioni se sviluppano senso di responsabilità o senso di proprietà rispetto al problema, abilitano competenze partecipatorie, percepiscono di avere un potere, accrescono il senso di comunità. La logica di fondo di questo scenario è l’empowerment. Empowerment, inteso come incremento delle capacità delle persone di passare dalla cosiddetta situazione di “passività appresa” del soggetto che ha sviluppato un sentimento di impotenza di fronte alle esperienze, “all’apprendimento della speranza” derivata dal sentimento di aumentato controllo sugli eventi, tramite la partecipazione e l’impegno nella propria comunità.
Empowerment si declina nello “sviluppo di comunità” e consiste nel processo per cui si supportano le persone nel miglioramento delle loro comunità attraverso azioni collettive. Tale lavoro si fonda sul riconoscere che la presenza di comunità sane non soltanto migliora la qualità della vita di chi ne fa parte, ma facilita anche l’erogazione dei servizi che in mancanza di un’adeguata organizzazione comunitaria non risulterebbero altrettanto efficaci. Quindi l’incontro tra le generazioni, che poi è anche incontro tra le istituzioni e in fondo incontro tra persone, ci è parso il terreno su cui focalizzare la riflessione e le proposte operative di azioni di dialogo e attivazione della comunità. (LL)

giovedì 16 dicembre 2010

a 16 anni avevo ragione.

a volte penso che l'italiano medio pecchi di un brutto difetto: sottovaluta se stesso. E i risultati si vedono in ciò che elegge a rappresentare se stesso.
Ho pensato a questo dal giorno in cui in Italia si è smesso di far politica, di parlare di politica, di vivere la politica. E' un giorno che dura da anni, almeno 15 direi.
Da un paio d'anni, guarda caso in concomitanza con l'avvento dell'ultimo governo stalinista d'Italia (ce ne sono stati altri tre prima ma meno ortodossi), ho consolidato questa opinione da quando, come nella peggior parodia del comunismo mangia bambini, donne minorenni venivano offerte ai dignitari del politburo.
Mi immagino un vecchio film anni 70 dai colori sbiaditi, giallastri, in cui vecchi orrendi e bavosi si accoppiano selvaggiamente con ragazze belle e affamate, tavoli di caviale e champagne, con dietro le foto di baffoni severi. Controcampo: la massa di poveri operai, negozianti, soldati dell'armata costretti a far finta che tutto va bene, leggendo l'unico giornale e ascoltando l'unica televisione. E poi spie ovunque, dignitari di partito che ostentano ricchezza davanti alla massa, parodie militari davanti a dittatori, purghe interne al partito e doni ai fedelissimi...

Mi son ritrovato a pensarmi a 16 anni fieramente anti (comunista e fascista) equiparare la manca e la destra allo stesso schema orribile. Non ero sprovveduto, sapevo, e so, distinguere le ragioni politiche da quelle etniche, il totalitarismo clericale da quello bolscevico. Non ho mai detto ne pensato che lo stalinismo e il nazismo siano la stessa cosa. Ma ho sempre pensato che ne l'uno ne l'altro avessero con me nulla a cui spartire.
Oggi vedo che queste differenze non le fa più nessuno facendo torto a partigiani e repubblichini, ad antifascisti e fascisti, ad anticomunisti e comunisti. Il torto sta nel credere che basti dire che si è tutti uguali per assolversi.

Ognuno di noi è diverso, profondamente diverso dall'altro, e solo con questa coscienza si può essere Stato, comunità, società. Perchè l'individuo fa la società e non il contrario.

Almeno in democrazia.

martedì 14 dicembre 2010

ancora 2 anni...


Lo dico da mesi, da quando in Italia è nata finalmente l'alternativa di destra, lo dico mentre stiamo ancora aspettando quella di sinistra, ci vorranno ancora due anni per tornare ad essere un paese civile.
Due anni perchè crolli, macerato dal potere, il castello di carte con cui l'eccelso trombatore idraulico copre le sue disgrazie di inetto governatore.
Due anni perchè prima avremmo governi nuovi, forse elezioni fasulle, rivendicazioni di governi del fare (i cazzi propri).
Due anni perchè si possa scegliere fra destra e sinistra (una liberale e progressista e una liberale e conservatrice, o una progressista e conservatrice e una liberale liberale, è irrilevante) fra due partiti che rappresentino i propri elettori in campagna elettorale, il proprio paese al governo, e il proprio programma di fronte al corpo elettorale. Questa si chiama democrazia.
Se uno non sa governare (ed è l'esempio lampante dell'incapace dormiglione) non verrà rieletto. e basta.

Due anni, se dio vorrà, due lunghissimi anni.

PS Dovremmo tutti, fascisti, comunisti, democristiani, radicali, liberali e repubblicani, socialdemocratici e socialisti, ringraziare Fini per averci ricordato cos'era la politica.
Non sudditanza ma libertà. Non obbedienza ma eresia. Non conservazione ma rivoluzione. Non denaro ma sudore e fatica. Non Violenza ma nonviolenza.

Questo era e oggi per alcuni di noi potrà tornare ad esserlo... qualsiasi sia il proprio partito.

giovedì 2 dicembre 2010

nostalgia del primo voto


europee 1989, preferenza Marco Taradash

I nostri soldi a Bertolaso

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze. - Per sapere - premesso che:
l'11 novembre 2010, Guido Bertolaso, ha lasciato il vertice della Protezione civile che ricopriva dal 2001 per andare in pensione;
dal 2001 la competenza della Protezione civile si è ampliata a ricomprendere i cosiddetti «grandi eventi» con 34 dichiarazioni adottate in tale senso e con 81 gestioni commissariali istituite in seguito alla dichiarazione di stato d'emergenza o di «grande evento»;
nella XVI legislatura in corso, da maggio 2008 ad agosto 2010, in 63 riunioni del Consiglio dei ministri, su 104 complessivamente tenute, sono stati adottati 154 provvedimenti d'emergenza che nel dettaglio hanno riguardato: 47 dichiarazioni dello stato di emergenza; 107 proroghe dello stato d'emergenza;
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha presentato, il 22 giugno 2010, la sua relazione che, al capitolo VII sugli interventi emergenziali, rivolge particolare attenzione a quelli realizzati a seguito di ordinanze di protezione civile comprese quelle relative ai «grandi eventi» e dall'analisi delle ordinanze di protezione civile emanate dal 1o gennaio 2001 al 31 marzo 2010 fa emergere che quelle relative al settore appalti sono state 302 e hanno riguardato uno stanziamento complessivo di risorse pubbliche pari a 12.894.770.574,38 euro così ripartite negli anni:

Anno Importo spesa globale N. ordinanze2001 1.956.118.571,91 28 2002 1.109.004.356,10 33 2003 283.763.347,26 24 2004 730.730.577,28 30 2005 253.074.138,76 24 2006 2.788.111.622,26 34 2007 1.057.819.764,68 39 2008 2.730.451.115,39 41 2009 3.939.859.534,08 49 totale 12.894.770.574,38 302

tra le disposizioni del codice dei contratti pubblici più di frequente derogate si rinvengono quelle relative alla figura del responsabile del procedimento, alla qualificazione necessaria per eseguire i lavori, alle procedure di scelta del contraente, alle modalità di pubblicazione dei bandi ed ai relativi termini, ai criteri di selezione delle offerte e verifica delle offerte anormalmente basse, alla progettazione, alle garanzie in fase di gara ed esecuzione, ai subappalti;
l'elaborazione dei dati che emergono dal numero delle ordinanze esaminate, dalla tipologia delle disposizioni derogate e dagli importi stanziati per gli interventi urgenti, permette di evidenziare che nell'arco dell'ultimo decennio una fetta rilevante di spesa pubblica è stata impiegata per investimenti relativi ad interventi sottratti in tutto o in parte non solo all'osservanza delle procedure previste dal codice degli appalti, ma, in alcuni casi di non poca rilevanza e specialmente nell'ambito dei «grandi eventi», anche ad ogni attività di rilevazione e controllo da parte dell'Autorità di vigilanza;

si tratta inoltre di atti sottratti al controllo preventivo della Corte dei conti come si evince dalla norma di interpretazione autentica di cui all'articolo 14 del decreto-legge n. 90 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 123 del 2008;
la Corte dei conti nella recente deliberazione n. 5 del 2010 ha suggerito un contenimento dello strumento del «grande evento», suggerimento condiviso anche dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che ha sottolineato non solo i profili di legittimità ma anche «la necessità di evitare turbative di mercato che si traducono in una sistematica alterazione della libera concorrenza»;
il 19 ottobre 2010, in occasione dell'insediamento del neo presidente dei magistrati contabili, Luigi Giampaolino, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Gianni Letta, nel suo intervento alla cerimonia ha dichiarato che: «Il governo, in un contesto di leale cooperazione istituzionale - ha detto Letta - vede nello svolgimento delle funzioni della Corte un supporto importante, cui ricorrere anche oltre i limiti strettamente imposti dalla legge, ad esempio avvalendosi della facoltà di avviare alcuni rilevanti provvedimenti al controllo preventivo di legittimità della Corte», lasciando intendere l'intenzione del Governo di sottoporre al controllo della Corte dei conti anche le ordinanze della Protezione civile per le quali la legge non impone tale passaggio;
nella risposta del 15 aprile 2010 all'interrogazione n. 2-00647, lo stesso Guido Bertolaso affermava che: «Per quanto attiene alla rendicontazione delle spese, l'articolo 5, comma 5-bis della legge 24 febbraio 1992, n. 225 prevede che i Commissari delegati rendicontino, entro il quarantesimo giorno dalla chiusura di ciascun esercizio e dal termine della gestione o del loro incarico, le entrate e le spese riguardanti l'intervento delegato. I rendiconti corredati dalla documentazione giustificativa debbono essere trasmessi, per i relativi controlli, al Ministero dell'economia e delle finanze» e che «al fine di assicurare la massima trasparenza a tutte le attività di competenza del Dipartimento di protezione civile ... erano in corso di predisposizione i relativi supporti informatici» -:
se si intenda pubblicare on line ed in che tempi, la rendicontazione analitica dell'operato del Commissario delegato nominato con ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3824 del 25 novembre 2009 per l'emergenza Friuli Venezia Giulia avversità atmosferiche del 4 settembre 2009;
se, considerando anche la durata pluriennale della gestione commissariale, il dipartimento abbia tenuto una contabilità aggiornata e dettagliata della stessa.
(4-09851)

Sacrosante domande...


Sacrosante domande:

E allora, noi che stiamo qua fuori, facciamo e facciamoci un po’ di domande sacrosante. Potreste avere fiducia in una persona che se ne va in giro a fare le corna? O ad alzare il dito medio come se fosse un “ciao ciao”? E dareste davvero fiducia a uno che dice: “Fra tre giorni è tutto risolto!”. Dareste fiducia a uno che ama raccontare barzellette sugli ebrei?
Magari con bestemmia finale. E dareste fiducia a uno che sorride sempre, anche se non c’è niente da ridere? E a uno che dice: meglio playboy che gay? Chi di voi avrebbe fiducia in un anziano signore che ama farsi accompagnare da ragazze diciottenni? E lo rivendica con soddisfazione. Rispondete onestamente. E chi, ancora, può aver fiducia in un vecchio che vuole essere e sentirsi giovane a tutti i costi? Gli affidereste il destino di vostra figlia? E dareste fiducia a uno che dice di una ragazza in coma vegetativo da sedici anni: “Può ancora avere figli”? E a uno che dà del coglione a chi non lo vota? E a uno che detiene il potere televisivo e si lamenta perché ne ha troppo poco? Avreste davvero fiducia in una persona che pretende di avere sempre ragione? E che caccia i dissidenti dal suo “partito”. Avreste fiducia in una persona che scaglia i suoi giornali contro gli oppositori? E di una che fa il baciamano a Gheddafi? E che va orgoglioso di essere amico di Putin? Avreste fiducia in uno che pensa che esistono ancora i comunisti (tranne Putin)? E in uno che da sedici anni legge lo stesso discorso? (filippo rossi)

a cui non sappiamo dare risposte serie...



lunedì 8 novembre 2010

finalmente un partito di opposizione! era ora!

L'intervento di Giafranco Fini alla prima convention di Fli

L'intervento di Fini:
il nostro progetto per l'Italia

di Gianfranco Fini
Care amiche e cari amici di Futuro e libertà, senza alcuna presunzione, umilmente, a bassa voce, credo che per si possa dire che se ci guardiamo intorno, se volgiamo gli sguardi dietro noi, alle settimane e ai mesi passati, possiamo per davvero di poter dire che abbiamo tutto il diritto di essere molto molto soddisfatti perché c’era chi con una certa presunzione, con un approccio superficiale, ci aveva frettolosamente liquidato: “sono quattro gatti, non ha senso politico quel tipo di avventura”. E solo in poche settimane, dal discorso di Mirabello a oggi, ci troviamo in questa splendida cornice di passione, in una manifestazione politica che, sempre senza presunzione, ha pochi precedenti, soprattutto per la molla che l’ha determinata. In poche settimane siamo diventati non marginali, non condannati all’oblio, ma politicamente determinanti per le sorti del governo e soprattutto, ed è più importante, per l’avvenire della nostra patria.

E allora è giusto chiedersi innanzitutto, e me lo chiedo innanzitutto io, questo piccolo grande miracolo da cosa è stato determinato? La risposta è una e una sola: gli artefici siete stati unicamente voi e con voi i tantissimo che oggi non sono qui fisicamente, ma ci sono idealmente. Donne, uomini, giovani, anziani che hanno dimostrato in queste settimane che si può ancora vincere una sfida basata sulla passione e sul coraggio civile, che hanno dimostrato di voler credere in progetto ideale da anteporre a ogni tornaconto personale. Voi siete qui per una certa idea di Italia, non per fedeltà a una persona e nessuno, amici miei, vi chiederà mai di cantare “Meno male che Fini c’è”, perché meno male che ci siete voi! Gli uomini passano, le idee restano, gli uomini sono il progetto, le idee la proiezione nel futuro. Altro che rancori personali, c’è stata una corale assunzione di responsabilità, un crescente desiderio di voltare pagina, una crescente stanchezza nel centrodestra e non solo che ha determinato questa voglia di tornare a essere artefici del proprio destino. Ho ritrovato una bella frase di un poeta troppo frettolosamente giudicato naif, Saint Exupery sulla costruzione di una nave.

Fuori di metafora, in Italia c’è la nostalgia di una politica diversa, pulita, fatta di valori e ideali. Un ringraziamento sincero va a tutti coloro che hanno reso possibile questo piccolo grande miracolo, ma in particolare ai più giovani, ragazzi e ragazze, che sono il motore di Futuro e libertà. A loro ieri ho chiesto di continuare a essere intransigenti senza diventare estremisti, perché l’estremismo è la negazione dell’intelligenza, gli ho chiesto di essere intransigenti nei valori. Un ringraziamento va anche ai tanti che non hanno esperienze politiche precedenti, a coloro che sono qui in rappresentanza di associazioni di volontariato, no profit, terzo settore, ai tanti italiani perbene che vogliono cambiare la società, che non credono più nella politica. Un grazie va anche a coloro che hanno alle spalle una gloriosa militanza politica nella nostra destra e a chi ha alle spalle altre esperienze politiche. E’ stato bello anche nel susseguirsi degli interventi degli amici che hanno preso la parola, constatare che oggi Fli possa realizzare quel disegno che era alla base della nascita del Pdl, la sintesi di quelle esperienze, il superamento delle incomprensioni del Novecento, dei valori supremi che uniscono tutti nell’interesse generale. Ringrazio chi viene da altre esperienze, del cattolicesimo liberale, del socialismo riformista, della cultura liberal: Fli non sarà certo una An in piccolo ma nemmeno una sorta di zattera pronta a raccogliere i naufraghi del Pdl.

In altri contesti si era solito dire: porte aperte a tutti, esclusi i perditempo. Qui, in termini politici, diciamo: porte chiuse ad affaristi e carrieristi. Oggi che rappresentiamo una bella novità dobbiamo essere coerenti con il nostro messaggio ideale, dobbiamo vigilare. E’ quello quello ho detto ai nostri ragazzi e a tutti coloro che sono venuti qui senza chiedere nulla, a loro spese, solo perché orgogliosi di partecipare a scrivere una nuova fase politica.
Abbiamo il dovere di avere accortezza, perché il nostro progetto è ambizioso: in poche parole ha la volontà di incarnare e rendere vivi quei valori autentici del centrodestra italiano, che siano il reale collegamento con i valori del centrodestra europeo, col moderatismo che rappresenta in Europa un punto di riferimento per il centrodestra. Nel Manifesto che ha fatto da colonna ideale al nostro evento, ci sono i valori che voglio richiamare, i capisaldi della carta identità di Fli: a cominciare dall’idea di nazione intesa come senso di appartenenza alla comunità, la coscienza di una identità, intesa come certezza che se lo Stato unitario ha affrontato 150 anni di vita, la gens italiana esiste da almeno duemila anni.

Senso di appartenenza, di identità, significa legittimo orgoglio per la nostra storia, l’orgoglio di rappresentare nel mondo il Paese che detiene la più alta percentuale del patrimonio culturale dell’umanità. E - lo dico senza alcuna strumentalizzazione - che dolore, amici, nel leggere quella notizia che ha fatto il giro del mondo, il crollo della domus dei Gladiatori a Pompei, unita a quell’altra notizia che nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo dando un’immagine degli italiani che non meritano. Non si può essere pienamente europei se si perde il senso di identità, di coscienza nazionale.

Il nostro paese ha delle responsabilità nello scenario internazionale e credo che il modo migliore, più onesto, meno retorico per ringraziare i nostri soldati, i nostri eroi - e caro Gianfranco permettimi di dirti che uomini come te sono la dimostrazione di quanta vitalità c’è oggi nella nostra Italia - il modo migliore per rendere omaggio questi uomini è impegnarsi perché l’Italia nel mondo oggi appaia diversa da quella immagine che purtroppo ha in alcuni frangenti. E’ un valore, quello della nazione, che si accompagna a un altro valore riassunto nel nostro manifesto: la legalità. La legalità, il più impegnativo, profondo, doveroso omaggio a chi è in prima linea e la considerazione della magistratura, che è una garanzie della nostra democrazia. La legalità non è solo il pacchetto sicurezza di cui il governo può menar vanto. La legalità è la certezza che se non si insegna ai nostri figli che prima di rivendicare un diritto essere pronti a assumersi un dovere, che se non si dice che senza il rispetto delle istituzioni senza il senso stato non c’è il senso di appartenenza a una comunità nazionale. La legalità bene intesa è la precondizione per la libertà. Senza cultura della legalità non c’è cultura della libertà. Altrimenti la libertà diventa solo quella del più forte verso i più deboli, del potente verso chi non ha certezza di uno Stato garante.

Legalità, nazione e - sempre non in ordine di ideale gerarchia ma in ordine che mi viene dal manifesto – il valore del rispetto della persona umana con il corollario della tutela dei diritti civili di ogni persona umana. Persona umana senza alcuna distinzione e soprattutto senza discriminazioni. Rispettare la persona vuol dire che non si possono distinguere bianchi e neri, cristiani, musulmani ed ebrei, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, cittadini italiani e stranieri. Perché porre la persona al centro non significa negare la necessità per ognuno di adempiere a dei doveri. E’ il concetto pocanzi espresso.

Ma è triste constatare la superficialità o l’arretratezza del dibattito politico-culturale. Lo dico per esempio per la questione di ciò che si deve fare per chi giunge in Italia da altri paesi e non è ancora cittadino, che mette al mondo qui i suoi figli, ragazzi che considerano l’Italia la loro patria anche se l’Italia non è la terra dei loro padri. Mi rifiuto di pensare che questo centrodestra risolva tutto con la propaganda del “gli immigrati clandestini se ne vadano”. Non contestiamo la necessità di allontanare i clandestini, contestiamo la dabbenaggine di chi non capisce che sempre più in futuro la nostra società sarà molto diversa da quella attuale, che avrà sempre di più la necessità di integrare coloro che rispettano la nostra storia, cultura, tradizione. Non c’è in nessuna parte d’Europa su questi temi, diritti civili e cittadinanza, un movimento politico così arretrato culturalmente come mi sembra essere il Pdl al rimorchio della peggior cultura leghista.

E sempre nell’ambito dei valori del nostro manifesto c’è quella che mi piace chiamare l’esaltazione del lavoro in tutte le sue accezioni: manuale o intellettuale, dipendente o autonomo. Il lavoro come luogo fisico dell’economia. Io non demonizzo la finanza, ma quando nell’economia prevale la ricchezza prodotta dalla finanza c’è sempre rischio speculazioni. La centralità del lavoro intesa anche come garanzia di un riscatto sociale, di possibilità per ogni persona di esprimere tutte le capacità che ha. Il lavoro consente a ogni uomo di crescere non solo da un punto di vista economico, ma anche da un punto di vista morale. La centralità del lavoro, che come dimostrano gli anni che abbiamo alle spalle, è diventato e sempre più sarà il naturale alleato se vogliamo un’economia sana e solida del capitale. Oggi possiamo dire che l’antitesti capitale lavoro o, come la chiamavano alcuni, la lotta di classe per far crescere i ceti più deboli si sarebbe rivelato inganno. E, con altrettanta certezza, possiamo dire che non avevano capito coloro i quali pensavano che il capitale fosse la parte trainante dell’economia rispetto al lavoro. Oggi, in ogni parte dell’Occidente e non solo, si cerca una sintesi tra capitale e lavoro come condizione essenziale per un’economia al servizio di un popolo e non solo parte di esso.

Anche la centralità della famiglia, intesa come cellula primaria della società, come principale agenzia educativa: in molti casi ognuno di noi è quello che impara ad essere dai suoi insegnanti, dalla madre, dal padre, la famiglia è un fattore di coesione sociale. Se in Italia non ci fosse la famiglia, al di là del fatto di esserlo legale o di fatto, perché nel secondo caso è innegabile che dobbiamo colmare un divario e allinearci a standard europei, dicevo, se la famiglia non fosse nella condizione attuale, se non svolgesse quel ruolo così centrale, il disagio sociale sarebbe ancora peggiore. Nel Manifesto c’è una centralità riconosciuta della famiglia nella società, ma anche di tutti quei valori che si riflettono in una dimensione continentale, quelli del moderatismo e popolarismo europeo. Fli si riconosce in questi valori e non sarà mai subalterna alla cultura politica della sinistra, dei nostri avversari, di quella cultura politica che rispettiamo e non demonizziamo ma che non ci può insegnare nulla. Io considero risibile che con un centrosinistra alla prese con i suoi travagli e i suoi litigi, c’è chi se la prende ancora con i comunisti; c’è qualcosa di più complesso, ma fino a quando noi avremo i nostri valori non saremo mai subalterni alla sinistra. Per questo dico che se Berlusconi ha bisogno di polemizzare contro di noi, cerchi argomenti più credibili di questo.

Credo di poter dire che Fli non sarà mai sinonimo di pensiero unico, di insipidi e deboli minestroni o incapace di cogliere i tratti civili della nostra identità per metterli al servizio del progetto. Un progetto,il nostro, ambizioso, e che si riassume nella volontà di far nascere un soggetto politico, come era alla base dell’intuizione del Pdl, in grado di dar vita a una grande rivoluzione liberale più volte promessa, che viene presentata in ogni campagna elettorale e che non è mai stata realizzata se non in minima parte. Noi abbiamo l’ambizione di animare e incarnare un moderatismo italiano con uno spirito diverso, perché essere moderati, nel centrodestra europeo, oggi significa non conservare ma cambiare il volto della società: questa è stata una delle grandi scommesse del governo che sono state perdute o mai affontate. Il nostro non è un progetto contro il Pdl, nel Pdl ci sono tanti uomini e donne contro cui non possiamo avere nessuna ostilità, in molti casi ne comprendiamo il disagio, l’amarezza e lo sconcerto, ma loro non sono i nostri avversari, non lo è il Pdl e per certi aspetti neanche Berlusconi. Semplicemente perché noi siamo oltre il Pdl, perché quella stagione politica si sta chiudendo o si è chiusa nell’incapacità di incarnare e realizzare i desideri e i progetti che aveva in sè.

Il nostro è un progetto ambizioso che tenta di recuperare il tempo perduto e il paradosso è che Berlusconi non capisce che un’iniziezione di vitalità alla sinistra gli viene solo dal fallimento del centrodestra e dall’incapacità di mantenere gli impegni con gli elettori. E’ stato detto che dovevamo fare chiarezza, spero di esserci riuscito finora, ci è stato chiesto di dire che cosa vuole essere Fli, cercherò di essere chiaro. Voglio citare due analisti politici che scrivono su due giornali che secondo qualcuno non andrebbero letti e che invece vanno letti; anche perché è meglio leggere quei giornali che ascoltare alcuni tg che sembrano usciti da quella cultura delle veline di certi paesi qualche anno fa, e per veline non mi riferisco a quelle signorine di bell’aspetto.

Uno è di Pierluigi Battista e l’altro il professor Alessandro Campi che hanno posto quesiti ai quali abbiamo il dovere di rispondere e abbiamo cercato di rispondere. Non abbiamo messo in piedi questa avventura per lucrare interessi, per giocare sullo scacchiere politico come in altre occasioni ha fatto chi voleva essere determinante a prescindere dai contenuti, come ha fatto chi era pronto a schierarsi di qua o di là solo per interesse. Chi pensa questo di Futuro e libertà deve ricredersi e credo abbia già iniziato a ricredersi, se è intellettualmente onesto.

Analoga citazione. Alessandro Campi, sul Riformista, si è chiesto se il progetto di Futuro e libertà è costruire una destra nuova, alternativa al berlusconismo, porre le basi di un centrodestra diverso dall’attuale, e se così è ogni scorciatoia o colpo di mano istituzionale su cui si favoleggia è fuori questioni il compito di Futuro e libertà non può essere quello di realizzare per vie traverse ciò che agli avverarsi di Berlusconi non riuscito attraverso le elezioni. Il compito di Futuro e libertà è assai più importante, perché politico, e impegnativo, perché teso a elaborare una proposta politico programmatica all’altezza dei problemi del paese.

Ho letto questo due brani di osservatori politici diversi tra loro perché entrambi pongono questioni cruciali e credo che questi concetti non possano essere espressi in modo più efficace . Il nostro progetto non è di un partito per lucrare, il nostro progetto è talmente ambizioso da rendere necessaria la domanda: ci riusciremo? Lo dirà solo tempo, ma dobbiamo crederci, metterci energie non per l’interesse di comunità politica, ma per l’interesse di una comunità intera. E per avere una possibilità in più di riuscirci bisogna tornare a sentire il polso del paese, guardare e ascoltare quell’Italia profonda, silenziosa che cerca di migliorare con il lavoro la condizione di vita nella nostra società. Quell’Italia silenziosa che non urla, non ha la bava alla bocca, non sta sulle gradinate e quindi non è fatta di ultrà. Quell’Italia che rappresenta la stragrande maggioranza del nostro popolo, che non è il paese dei balocchi che di tanto in tanto dipinge Silvio Berlusconi e che ha dipinto anche nella riunione della direzione nazionale del Pdl dell’altro giorno. Non è quel paese dei balocchi. Intendiamoci, il governo ha fatto bene, ha ben operato e fronteggiato l’emergenza. Non c’è dubbio che Tremonti sia stato capace di preservare l’Italia da una crisi finanziaria che ci avrebbe condotto non su orlo del baratro, ma precipitato nel baratro. Tenere sotto controllo la spesa pubblica è necessario, Futuro e libertà non sarà mai il soggetto che chiede una spesa ulteriore o usa il denaro pubblico per creare un nuovo assistenzialismo o mantenere vecchie sacche di privilegio. Semmai a Tremonti contestiamo la modalità di come i conti pubblici sono stati tenuti sotto controllo, quella dei tagli lineari: tagli qualcosa a ogni dicastero. Questa modalità ha rappresentato per certi aspetti il modo più agevole per non accontentare qualcuno e non scontentare altri, ma è stata anche il modo migliore per il governo per non scegliere. I tagli lineari esentano dal compito difficile di scegliere su cosa tagliare e su cosa investire, ma ci tornerò.

Non ho problemi a dire che la riforma dell’università del ministro Gelmini va nella direzione giusta perché mette in discussione i tradizionali assetti educativi che non si erano rivelati idonei per i nostri figli. Ma una riforma fatta senza denaro è inutile, come Fli ha sostenuto in Parlamento quando ha cominciato a ragionare sulla base delle proprie convinzioni e non seguendo il precetto di “credere, obbedire e combattere”. Così come non c’è dubbio che l’azione del ministro Maroni sia stata positiva, ma è da elogiare soprattutto il ruolo delle forze dell’ordine nel settore della sicurezza. Dico forze dell’ordine perché sono in prima linea e se si lamentano per la carenza di mezzi e si dichiarano pronti a fare di più ma ci chiedono di metterli in condizione di farlo, non possiamo fare finta di non sentire e dire che i sacrifici devono farli tutti. Non c’è dubbio che su alcune questioni il governo non abbia il polso del Paese, non abbia la percezione reale di quelli che sono timori e ansie degli italiani.Per certi aspetti il governo sta galleggiando, tampona le emergenze, ma spesso perde di vista quella che era la rotta: non ha davanti a sé quel progetto che deve essere essenziale per costruire oggi l’Italia del domani. Il governo non ha preso coscienza che alcune questioni vanno affrontate senza esitazioni.

Quali sono le priorità? Altro che ddl sulle intercettazioni. Le priorità che sono nell’agenda degli italiani devono essere anche quelle del governo, che deve cogliere quali sono i sentimenti della nostra gente, ascoltare i suoi timori, le sue speranze. La priorità è affrontare il nodo dell’indebolimento dell’identità nazionale, del senso di appartenenza alla comunità: quando si brucia il tricolore, bè, c’è davvero motivo di allarmarsi. Se per protesta, non so quanto fondata, si arriva al vilipendio del simbolo della dignità nazionale, questo è conseguenza del fatto che per troppo tempo si è sottovalutato non il rischio della secessione, ma l’egoismo strisciante territoriale che è stato il motore della Lega nord. A loro non interessa nulla di ciò che accade sotto il Po perché non ha alcun interesse al valore dell’unità nazionale. Alla vigilia dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità, il governo ha il suo caposaldo nel Pdl, un partito che nasce con una vocazione nazionale ma che al nord adesso è una pallida copia sbiadita della Lega.

Alla vigilia delle celebrazioni, bisogna fare una riflessione su cosa significa essere italiani oggi, è doveroso. La caduta della coesione sociale, non so se se ne sono resi conto, sta aumentando le diseguaglianze, si sta perdendo di vista quel disegno del Pdl che mirava a far migliorare le condizioni di vita del nostro popolo riducendo le diseguaglianze,e si sta trasformando in disegno opposto. In Italia il ceto medio si sta impoverendo, chi ha un solo reddito ha problemi ad arrivare a fine mese. Altro che Paese dei balocchi e del va tutto bene… In Italia c’è un impressionante conflitto generazionale, oggi i più giovani se pensano a futuro si chiedono se sarà migliore o peggiore. Perche oggi i nostri ragazzi sanno che abbiamo un tenore di vita accettabile ma hanno capito bene che quando la famiglia non sarà più in grado di aiutarli per loro ci saranno seri problemi.

Mi ha colpito l’analisi di un istituto di ricerca che ha osservato come si siano rovesciati i termini del rapporto tra giovani e anziani. Fino a poco tempo fa nelle nostre famiglie l’impiego di un giovane consentiva al nonno di vivere una vecchiaia serena. Oggi, in molti casi, specie al Sud, senza la pensione del nonno un ragazzo non avrebbe la possibilità di portare a cena la fidanzata di una vita. E’ un conflitto che va affrontato, dicendo chiaramente ai padri e alle madri che è il momento di fare dei sacrifici, ma finalizzati a garantire ai figli di entrare a testa alta nella società e nel mercato del lavoro. Sarebbe illusorio pensare di garantire a tutti i giovani il posto fisso, magari nella pubblica amministrazione, ma il fatto che il mercato del lavoro sia flessibile, che i contratti siano aperti non può significare la precarietà assoluta e vita natural durante. Guardiamo agli altri paesi europei. Il nostro welfare non può essere solo delle garanzie, deve essere anche delle opportunità. Oggi tra i ceti tradizionalmente deboli, accanto agli anziani, ai disabili, ai cassintegrati, vanno messi anche i giovani. Ed è accaduto senza che nessuno se ne accorgesse. Perché non guardare alla Germania, dove ci sono più contratti a termine che da noi, ma la busta paga è mediamente più pesante rispetto a quella di un giovane che a parità di mansioni ha un contratto a tempo indeterminato?

La perdita della coesione sociale, lo sfibrarsi delle ragioni per cui l’Italia sta insieme e un’altra emergenza, legata alla situazione economica: il calo di competitività e produttività. Basta leggere quello che ha detto ieri Draghi e che aveva detto anche la Marcegaglia qualche giorno fa. Possibile - e lo dico al governo - che personalità così diverse tra di loro indichino come priorità quella di rilanciare l’economia, di mettere in campo politiche per la ripresa della produzione? Possibile che da parte della politica si liquidi tutto dicendo che si tratta delle assurde congiure di qualche potere o dell’incapacità di capire che tutto va bene perché c’è il governo del fare? Mi sembra che governo del fare certe volte significhi fare finta di non vedere che non è vero che tutto va bene.

Nell’agenda politica è necessario non avere tolleranze nei confronti di quello che è cultura dell’illegalità, anche intesa come quella logica secondo cui, da che mondo è mondo, il paese si divide sempre in due categorie di fronte alle quali uno si deve schierare. A me non piace un paese dove non c’è una levata di scudi corale rispetto a certi luoghi comuni che vengono diffusi, luoghi comuni tipo quello per cui chi fa tutto il suo dovere e paga tutte le tasse è fesso e chi invece trova il modo di fare il furbo va apprezzato. E’ lo stravolgimento del principio di legalità come cultura del bene comune. Poi c’è anche quello che chiamo una sorta di decadimento morale e qui serve davvero fare sfoggio di padronanza della lingua, perché il tema è scivoloso e il moralismo è una delle peggiori attitudini di una parte del nostri popolo e di tanti sepolcri imbiancati, sempre capaci di fare la predica ma poi non guardare dentro di sé. Quando dico decadimento morale, intendo una parte dell’attualità che non è figlia obbligata della modernità. Credo che quel decadimento sia in qualche modo anche la conseguenza di una progressiva perdita del senso del decoro e del rigore dei comportamenti - e in particolar modo dei comportamenti di chi, gli piaccia o meno, deve essere d’esempio, perché se si è un personaggio pubblico si è obbligati in qualche modo a essere d’esempio.

E lasciatemi laicamente, con la laicità positiva della coscienza del “date a Cesare quel che è di Cesare” ma anche del ruolo fondamentale che ha nella società occidentale la religiosità e in quella italiana l’insegnamento di Santa romana chiesa, lasciatemi laicamente citare l’insegnamento del Papa che dice che la spazzatura non è solo nelle strade ma negli animi e nelle coscienze. Questo, credo, è il decadimento che c’è e da questo punto di vista io non credo che la politica se ne possa lavare le mani, perché per certi aspetti non tutto quello che c’era nella prima repubblica è oggi da buttare. Io non so quanti si ritroveranno nelle parole che sto per dire, ma io ho rimpianto dello stile di comportamento di Moro, Berlinguer, Almirante, La Malfa. Nella prima repubblica c’erano anche queste personalità, che non si sarebbero mai permesse di trovare ridicole giustificazioni a ciò che non può essere giustificato.

Eppure, amici miei, nonostante ci siano queste emergenze legate alla coesione sociale, all’economia, alla difesa dell’identità nazionale, al dovere di combattere l’afasia morale, io sono convinto che l’Italia non sia un paese destinato a declinare inevitabilmente, che si sfascerà e finirà nel burrone. Non ci credo perché sento forte nel paese una parte di società vita, vitale, reattiva, tutt’altro che rassegnata o indisponibile alla buona battaglia. E’ quella parte di società che ha bisogno di un’altra politica, più alta rispetto alla quotidiana bagarre, all’eccesso di propaganda. Quella parte di società che bisogno di una politica capace di superare la logica per cui l’altro da te è tuo nemico, per cui o si sta di qua o di là. Io credo che sia significativo se soltanto i tentativi di cercare momenti condivisi, di trovare convergenze parlamentari, viene immediatamente bollato come se fosse il sinonimo del peggiore inciucio, della peggiore truffa nei confronti degli elettori.
Perché il bipolarismo è un valore ma non può significare che finita una campagna elettorale l’altra coalizione resta un nemico da combattere con eccessi di propaganda e deficit di politica. Su questioni delicate, che fanno tremare le vene ai polsi, o si è capaci di trovare obiettivi condivisi nell’interesse del Paese oppure diventa difficile far vincere una politica che parli alla parte sana del Paese, quella che tira la carretta ogni giorno. Serve una politica che garantisca la stabilità delle istituzioni. Io non ho esitazioni nel dire che in questo contesto di crisi internazionale e con la necessità del Paese di mettere sul mercato migliaia di titoli, con alcune nubi che arrivano da altri Paesi europei, di tutto c'è bisogno tranne che di una sfida tra Orazi e Curiazi o dell'ennesima campagna elettorale.

Non ho esitazioni nel dire che è necessario valutare le condizioni per un patto di legislatura è che a mio vedere il patto è qualcosa in più del compitino dei 5 punti con scolaretti che devono votare altrimenti è lesa maestà. Un patto è possibile a condizione che ci sia un colpo d’ala, una svolta che consenta di aprire una nuova fase: serve una nuova agenda politica, un nuovo programma di governo da qui alla fine della legislatura. Per quanto riguarda Fli, visto che ci hanno chiesto di essere chiari, per noi un nuovo patto è possibile a condizione che nell’agenda ci siano alcune grandi questioni che nei 5 punti programmatici non ci sono o sono accennate in mina parte,

In primo luogo, il rilancio dell’economia attraverso un nuovo patto sociale, a partire per esempio dagli stati generali sull'economia e il lavoro nel Paese. In una fase in cui mancava il ministro dello Sviluppo e qualcuno pensava che non era necessario, “tanto pensa a tutto lui”, c'è stata una prima pagina di un nuovo patto sociale con il tavolo delle parti sociali su cinque punti d'intesa. Un tavolo al quale hanno partecipato tutti, compreso la Cgil, Confindustria, Confragricoltura e altri: tutti, con i sindacati, si sono dati da fare per vedere cosa si poteva trovare in comune per un patto della crescita. Unica assente al tavolo era la politica, ma da quel tavolo sono uscite alcuni punti d’intesa tra datori di lavoro e parti sociali che andrebbero sostenute sul fronte degli investimenti sulla ricerca e l’ innovazione. Altri Paesi hanno subìto tagli più pesanti dei nostri ma sulle spese per ricerca e innovazione hanno investito di più. Da noi, dove non ci sono i grandi gruppi industriali e l’economia è sostenuta soprattutto dal tessuto delle Piccole e medie imprese, bisognerebbe essere coerenti. Le Pmi mai potranno destinare ingenti risorse ai brevetti, agli studi tecnologi, all’innovazione, se non li supporta lo Stato. Investire in ricerca e sapere significa mettere le piccole e medie imprese nella condizione di vincere la sfida sulla qualità dei prodotti, non sulla quantià, dove è impossibile competere con paesi come Cina e India. Queste non sono utopie, basta vedere altri paesi, come la Germania, dove la Merkel ha fatto una manovra dura ma alla voce ricerca e sapere non c’è segno meno ma segno più, nonostante nel loro tessuto economico il ruolo delle grandi imprese sia determinante.

Altro punto prioritario, fermo restando il problema della sburocratizzazione della pubblica amministrazione, è la necessità di intervenire sul meccanismo degli appalti nella pubblica amministrazione, garantendo legalità a trasparenza. Basta guardare quello che è accaduto negli ultimi tempi in Italia per capire che questi princìpi in Italia spesso non vengono rispettati. E in molti casi non è necessario che intervenga la magistratura per comprendere che l’unica regola è l’intermediazione della politica, con evidenti conseguenze sul malaffare. Così come è ormai non più rinviabile un intervento per legare i salati alla capacità produttiva: come si fa a non capire che chi lavora di più e meglio va pagato meglio di chi timbra solo il cartellino?

Tornando al tavolo tra le parti sociali, tra i suoi obiettivi c’era quello di utilizzare in pieno i fondi Fas, che non possono essere il bancomat a cui Tremonti ricorre quando la Lega glielo chiede per tamponare le emergenze. Se c'è una prova del fatto che il Pdl è afono e che la linea gliela la dà solo la Lega, è quando Tremonti ha preso i soldi dai fondi Fas per tacitare gli allevatori delle quote latte che avevano violato la legge. Per quanto riguarda le opere infrastrutturali, non ha senso mettere fondi su tutto, si dica quello che si può fare su alcune opere, basta l’illusione del “facciamo tutto”. Un ultimo punto uscito dal tavolo delle parti sociali è quello relativo alla necessità di dare corso a una fiscalità di vantaggio per il sud che non danneggi il nord, per metterlo in condizione di essere competitivo, visto che oggi sono tantissime le aziende italiane che de localizzano all’estero a condizioni più favorevoli. Certo se la linea del governo la detta la Lega non credo che per i nostri ministri sarà possibile dire che serve una inversione di tendenza.

Ma servono questi punti per avviare un processo per rilanciare il paese. Servono almeno due, tre riforme per l’ammodernamento del nostro sistema istituzionale. Le grandi riforme che si sono fatte - permettetemi una considerazione amara - tra il 1861 e il 1870, in un’epoca in cui ci si muoveva con i cavalli. La classe dirigente allora diede vita a riforme che servivano per l’Italia. Oggi, nell’epoca di internet, non vi è nulla di paragonabile a quanto fatto dalla classe dirigente dell’epoca.

Occorre abbinare la rappresentatività delle assemblee alla capacità degli esecutivi di governare. Io credo che nell’agenda per il patto di legislatura oltre alle cose di cui abbiamo parlato, vadano inserite alcune riforme, altro che i 5 punticini.
Sulla riforma del federalismo fiscale dico che è una considerazione fin troppo facile spiegare perché non ci sono stati ripensamenti o rallentamenti. Questo è un governo in cui, piaccia o meno, l’iniziativa politica è alla Lega. Il federalismo fiscale è in procinto di essere ultimato, e dico subito che non sono preoccupato perché prevedere il fondo di compensazione renderà possibile da parte regioni sud non rimanere indietro. Quel fondo per una lunga fase non prevederà il rischio di abbandonare il Sud a se stesso. Su questo ha ragione Adriana Poli non parliamo di federalismo solidale perché il federalismo o è solidale o non è. Io dico che quando il federalismo fiscale entrerà in vigore non ci sarà il pericolo, ma una bella sfida che farà emergere una capacità della classe dirigente perché forse qualcosa che gli amici della Lega non hanno compreso è che la classe dirigente del Sud non è meno capace di quella del Nord, aspetta solo di essere messa in condizione di mostrarlo. Il federalismo fiscale non comporta un rischio di disgregazione, ma sarebbe privo di senso senza un ammodernamento in senso federale dello Stato: la camera delle regioni, che rappresenti il territorio. Senza, sarebbe l’ennesima riforma incompiuta, che rischierebbe solo di peggiorare la situazione. Berlusconi assuma l’impegno di riscrivere l’articolo 117 e dar vita alla camera delle autonomie.

Patto di legislatura, nuova agenda, nuovo programma, rilancio delle istituzioni, riforme. So che ciò che sto per dire non sarà considerato con grande soddisfazione, ma se si vuole dar corso al principio di rispettare il popolo, che nelle sue mani ha lo scettro, allora non ci può essere un patto di legislatura se non si cancella una legge elettorale che è una vergogna. Avete diritto di scegliere i vostri parlamentari, non ci si può affidare solo alla leadership.

E’ necessaria una nuova agenda, è necessario un nuovo programma, è cambiato tutto dalle elezioni. Una nuova agenda e un nuovo programma. Berlusconi ha fatto un appello all’unità del centrodestra, della coalizione. E sarebbe facile ironizzare: “se se ne fosse reso conto un po’ prima che non c’erano solo schiaccia pulsanti, che non c’era alcun controcanto, nessuna voglia di dire solo no, ma il desiderio di aiutare la politica. Potrei ironizzare, ma non lo faccio . E’ certamente necessario verificare le condizioni per l’unità della coalizione ma il presidente Berlusconi ha detto qualcosa di più: “faccio appello ai moderati italiani, a tutti quanti non sono e non vogliono stare a sinistra. Bè, i moderati italiani si ritrovano particolarmente, in parlamento, in un soggetto che è l’Udc. Io credo che il presidente Berlusconi, che non è un ingenuo, anche se ama dire che di non essere un professionista della politica ne abbia capito i meccanismi, ma credo ne abbia sperimentato i peggiori.

È tra le cose possibili che il centrodestra si ricompatti solo perché, bontà sua, ha riconosciuto la nostra presenza? Futuro e libertà non può rinunciare alla sua identità, che è scritta nel manifesto, alle sue proposte, ai suoi progetti solo perché adesso è stato proposto un patto. Dobbiamo aggiornare l’impegno in ragione delle nuove esigenze.
Ed è altrettanto ingenuo pensare che l’Udc solo per l’appello ai moderati dica: “bene allora ora arriviamo anche noi”. E’ una logica che non attiene alla politica, è una logica che attiene ad altra attività: quella mercantile. Non c’è alcuna possibilità di un patto di legislatura se non si è chiari su questi aspetti: nuova agenda, nuovo programma.

E per rendere possibile tutto ciò credo che Berlusconi debba dimostrare quel coraggio già dimostrato in altre occasioni, che in passato gli ha già consentito colpi d’ala. Deve avere il coraggio di rassegnare le dimissioni, di salire al Colle, dichiarare che la crisi è aperta di fatto e avviare una fase politica in cui rapidamente si ridiscutano l’agenda e il programma, si verifichi la natura della colazione e la composizione del governo. Se Berlusconi avrà questo coraggio, questa sarebbe davvero una bella svolta del predellino. Noi certamente non ci tiriamo indietro, in ragione di quanto detto e fatto fin qui.

Se non ci sarà il colpo d’ala, se prevarranno i cattivi consiglieri – quanti cattivi consiglieri ci sono stati in queste settimane – se prevarranno quanti dicono quella di Fini è una trappola, se Berlusconi non darà ascolto ai cattivi consiglieri e ci sarà il colpo d’alta, tutti si assumeranno le proprie responsabilità amici miei.

Se al contrario ci non sarà, se prevarrà in lui quell’autoconsolatorio quanto fasullo assunto del “che problema c’è tanto ci penso io, mettiamo le cose a posto”, amici, è evidente che Ronchi, Urso, Menia e Buonfiglio non rimarranno un minuto in più in quel governo. Io li ringrazio per quello che hanno fatto e per come dimostrano che tra noi non c’è alcun tipo di divisione. Il nostro gruppo, i nostri vertici, continueranno a votare ciò che è condiviso e se neanche questa giornata convincerà Berlusconi ad aprire una nuova fase, è chiaro che il problema non sarà più chi resta col cerino in mano o chi stacca la spina. Se proseguiranno le furbizie e i tatticismi saranno gli italiani che la staccheranno. Gli italiani staccheranno la spina perché sono stanchi di un governo che non governa, di chi intende la stabilità politica come un paracarro, che sta lì, non si muove, non fa nulla e non ne prende atto. La stabilità è quella delle istituzioni che sono in grado di risolvere i problemi reali.

Questo è l’appello che Fli rivolge al governo nello stesso momento in cui ci è stato chiesto di essere chiari: noi ci siamo assunti le nostre responsabilità, che non ci spaventano, chiediamo che ci siano analoghe prese di responsabilità perché così non si può andare avanti. Lasciamo al premier l’onore e l’onere di dire se intende aprire una nuova fase con un’agenda e un programma discusso con noi, prendendo atto di quello che pensano gli altri, se vuole tirare a campare o tirare le cuoia, come direbbe Andreotti. Qualunque decisione ci troverà con la coscienza a posto. Il senso profondo di questa due-giorni è che Fli non è un partitino o un esperimento, è un ambizioso e coraggioso ed estremamente nobile tentativo di dare voce autentica al nostro popolo, ridargli la speranza di una Patria che si risolleva. Noi non vogliamo nuove elezioni, ma se qualcuno le vuole sappia che non ci spaventano. Lasciamo ad altri l'onere di dimostrare se ha davvero a cuore l'interesse del Paese o vuole rimanere a palazzo Chigi in attesa che passi la bufera. Viva l’Italia, viva Futuro e libertà.

(Questa trascrizione è stata fatta in tempo reale, va pertanto considerata una bozza da aggiornare)

Discorso pronunciato a conclusione della prima convention di Fli a Bastia Umbra il 7 novembre 2010

giovedì 14 ottobre 2010

e se questa non è civiltà giuridica, dove andremo?

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 2670




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PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
SARUBBI, GRANATA
Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza
Presentata il 30 luglio 2009


Onorevoli Colleghi! - L'Italia è passata, in un arco di tempo relativamente breve, da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. Ma se questo dato di fatto può dirsi ormai acquisito a livello teorico, non lo è altrettanto nella mentalità dei nostri concittadini, e questo forse anche a causa dell'esistenza di norme del nostro ordinamento che mal vi si adeguano. L'Italia, infatti, non è solo diventata un Paese di immigrazione, ma di un'immigrazione stabile, strutturale. Se all'inizio di questa trasformazione, come ponte sul Mediterraneo, era meta transitoria di flussi di persone dirette per lo più verso il centro-europa, adesso l'Italia è diventata meta finale del processo migratorio. Emblematico, in questo senso, il dato riguardante la cancellazione dai registri anagrafici degli stranieri. Nel 2007, circa 20.000 persone si sono cancellate a fronte delle 480.000 presenti; un saldo positivo, quindi, di circa 460.000 unità, in costante crescita rispetto agli anni precedenti. Ma altri indici testimoniano ancora meglio l'articolazione della popolazione straniera nel nostro territorio. Sempre nel 2007, i nati di cittadinanza non italiana hanno superato quota 64.000, corrispondenti a circa l'11,4 per cento del totale, con un incremento di quasi il 90 per cento rispetto alla situazione di soli sei anni fa. Importanti sono anche le cifre riguardanti il mondo del lavoro (stranieri sono poco meno del 10 per cento degli occupati), l'incidenza sul lavoro autonomo (165.000 nel 2007 sono stati i titolari di impresa; 52.000 i soci e 86.000 le altre figure societarie) e di chi acquista casa (120.000 i mutui accesi dagli stranieri). Tutti dati che dimostrano come



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la popolazione straniera tenda a scegliere l'Italia come Paese di adozione.
Questa «doppia vocazione», di porta di accesso dei flussi e di tappa finale di essi, rende evidente la necessità, non più derogabile, di un combinarsi di politiche capaci di governare l'immigrazione tanto sul fronte della sicurezza che su quello dell'integrazione. È necessario, infatti, garantire una gestione dei flussi di ingresso ordinata e tale da evitare l'ingenerarsi nella popolazione residente di allarmismi e di paure e, allo stesso tempo, impegnarsi nel supportare chi ha deciso di stabilirsi nel nostro Paese e di intraprendere un cammino volto a raggiungere la piena integrazione sociale, civile e culturale, condizione che ha riflessi evidenti sulla stabilità sociale.
I numeri assoluti dell'immigrazione riguardanti il nostro Paese confermano questo stato di cose. Sempre prendendo il 2007 come anno di riferimento, si nota che l'Italia si colloca tra i primi Paesi di immigrazione dell'Unione europea con i suoi circa 4.000.000 di stranieri regolarmente residenti, con un'incidenza intorno al 6 per cento rispetto all'intera popolazione, dati vicini a quelli della Francia (4.900.000) e inferiori alla Germania (7.200.000) e alla Spagna (5.200.000). Numeri simili, dunque, per quanto riguarda la rilevanza del fenomeno, ma completamente diversi rispetto alla sua articolazione. Se prendiamo uno dei tipici indici di integrazione, ovvero il numero di cittadinanze concesse, notiamo la differenza macroscopica tra questi Paesi: nel 2005, 19.266 stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana; nello stesso periodo erano 154.827 in Francia, 117.241 in Germania e 48.860 in Spagna. Utile in questo senso è anche l'analisi delle cittadinanze concesse in Italia negli ultimi anni. Si nota un aumento importante (dalle 10.645 nel 2002 alle 35.766 del 2006) ma che non raggiunge mai il livello degli altri grandi Paesi europei di immigrazione. Emblematico è, poi, il dato riguardante il rapporto tra cittadinanze concesse per matrimonio, che raccolgono circa i quattro quinti delle intere richieste di concessione, rispetto a quelle per residenza. È un dato, questo, tipicamente italiano, che dimostra come la cittadinanza per residenza, frutto di un processo di radicamento sostanziale, sia un'opzione che di fatto non viene presa in considerazione dal cittadino straniero, che continua per lo più a sentirsi e a vivere in Italia come ospite, dato sottolineato recentemente anche dal Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL), che giudica l'incidenza delle acquisizioni di cittadinanza in Italia come «poco significativa se non insoddisfacente» («Indici di integrazione degli immigrati in Italia, IV e V Rapporto», Roma 2008).
Del resto la legge 5 febbraio 1992, n. 91, che disciplina l'acquisto della cittadinanza in Italia, individua un percorso meramente quantitativo attraverso alcune condizioni passive. È richiesto un arco temporale molto lungo (dieci anni che salgono nella realtà a tredici-quindici anni) che impedisce, di fatto, che l'acquisizione a pieno titolo dei diritti civili legati alla cittadinanza diventi un obiettivo che il cittadino straniero residente in Italia reputa davvero perseguibile. Inoltre è un provvedimento di tipo concessorio, che esclude quindi la partecipazione attiva del richiedente all'iter di acquisizione.
La presente proposta di legge poggia invece su due capisaldi: da un lato mira a fare sì che il minore nato in Italia da un nucleo familiare stabile acquisisca i pari diritti dei coetanei con i quali affronta il percorso di crescita e il ciclo scolastico; in tal modo si evita il crearsi di una «terra di mezzo», dove i bambini nati da genitori non italiani crescano con un senso di estraniazione dal loro contesto, pericoloso per il futuro processo di integrazione e di inserimento sociali del minore. Questo si ottiene passando dall'attuale principio dello «jus sanguinis», sul quale è basata la legislazione vigente, al principio dello «jus soli», temperato e condizionato dalla stabilità del nucleo familiare in Italia o dalla partecipazione del minore a un ciclo scolastico-formativo.
L'altro caposaldo della presente proposta di legge prevede una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo


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di attribuzione della cittadinanza in Italia, passando da un'ottica «concessoria e quantitativa» a un'ottica «attiva e qualitativa». La cittadinanza deve diventare per lo straniero adulto un processo certo, ricercato e formativo; il punto di arrivo di un percorso di integrazione sociale, civile e culturale e il punto di partenza per il suo continuo approfondimento. L'idea fondamentale è, da un lato, quella di fornire tutti gli strumenti idonei a favorire il processo che porta al pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza a chi dimostri di volersi integrare nel tessuto sociale e civile della nazione che lo ospita; dall'altro, quella di non far scattare automatismi laddove questa volontà non sia espressa esplicitamente. È difficile affermare infatti, vista l'entità dei flussi, che le vigenti norme sulla cittadinanza abbiano costituito un efficace deterrente contro l'immigrazione nel nostro Paese: inefficaci in questo, esse rischiano, invece, di costituire un poderoso argine contro il processo di integrazione, con ricadute dirette sulla stabilità sociale e, quindi, sulla sicurezza reale e percepita dei cittadini.
Per compenetrare i due aspetti complementari della questione, sicurezza e integrazione, alcuni articoli della presente proposta di legge individuano con precisione anche le condizioni per le quali la cittadinanza può essere negata, preclusa o sospesa. Quello che ci preme sottolineare, in generale, è che, una volta riconosciuta la positività per la collettività del garantire l'integrazione completa e consapevole di chi sceglie di vivere stabilmente nel nostro Paese, è opportuno che lo Stato stesso intervenga attivamente per facilitare il realizzarsi di questo processo.
L'ispirazione della presente proposta di legge, per ciò che concerne i minori, si rifà alla Convenzione europea sulla nazionalità, del 6 novembre 1997, la quale prevede che lo Stato faciliti nel suo diritto interno l'acquisto della cittadinanza per le «persone nate sul territorio e ivi domiciliate legalmente ed abitualmente» [(articolo 6, paragrafo 4, lettera e)]. Si prevede in questo senso che il minore nato in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno legalmente soggiornante da almeno cinque anni e attualmente residente, possa diventare cittadino italiano, previa dichiarazione di un genitore da inserire «obbligatoriamente» nell'atto di nascita. L'obbligatorietà della dichiarazione introduce, per così dire, un onere a carico dello Stato a fare sì che il diniego sia consapevole o, da un altro punto di vista, a evitare che l'omissione dell'assenso avvenga per ignoranza della norma. È uno dei tanti meccanismi previsti dalla presente proposta di legge che testimoniano l'interesse dello Stato nel favorire e nel garantire l'instaurarsi del processo di integrazione. Se il genitore, poi, dovesse dissentire, al soggetto è comunque garantita la possibilità di diventare cittadino italiano richiedendolo entro due anni dal compimento della maggiore età. Attenzione particolare è prestata anche ai minori che, seppure non nati in Italia, vi risiedano legalmente ovvero compiano in Italia il loro percorso formativo. È infatti previsto che un minore diventi cittadino italiano, su istanza del genitore (o del soggetto stesso se compie la maggiore età durante gli studi), se ha completato un percorso scolastico o professionale nel nostro Paese.
Un'altra colonna portante della presente proposta di legge consiste nell'intento di superare l'attuale procedimento di concessione della cittadinanza, basato su condizioni esclusivamente quantitative, introducendo un meccanismo di attribuzione che, a fronte della riduzione del numero di anni necessari per ottenere la cittadinanza, richieda alcuni impegnativi requisiti che implichino la valutazione della qualità della presenza nel nostro Paese dello straniero e la sua volontà di intraprendere effettivamente con successo un percorso di integrazione che possa culminare con la concessione della cittadinanza. Sono previste, pertanto, la verifica della residenza attuale e della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero. Infine, è previsto un giuramento di osservanza della Costituzione e di rispetto dei suoi valori fondamentali. È importante sottolineare che, nella presente proposta di legge, la prestazione di tale giuramento


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non è un mero atto formale, ma è indispensabile al fine del perfezionamento della procedura di attribuzione della cittadinanza, tanto che, in caso di mancata e ingiustificata presenza alla cerimonia del giuramento, il provvedimento viene sospeso, mentre lo stesso procedimento addirittura decade nel caso di rifiuto a prestare il giuramento.
Si ritiene, in questo modo, di riuscire a compenetrare e ad armonizzare le esigenze, diverse ma intimamente legate, di sicurezza e di integrazione nel governo dei processi di immigrazione.


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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Nascita).

1. All'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1 sono aggiunte, in fine, le seguenti lettere:

«b-bis) chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno è legalmente soggiornante in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni e attualmente residente;

b-ter) chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno è nato in Italia e vi risiede legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno»;

b) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

«2-bis. Nei casi di cui alle lettere b-bis) e b-ter) del comma 1 la cittadinanza si acquista a seguito di una dichiarazione obbligatoria di volontà in tale senso di un genitore da sottoscrivere contestualmente alla registrazione anagrafica e da inserire nell'atto di nascita. Entro un anno dal raggiungimento della maggiore età il soggetto può rinunciare, se in possesso di un'altra cittadinanza, alla cittadinanza italiana.
2-ter. Qualora sia stato espresso esplicito rifiuto nella dichiarazione obbligatoria di volontà di cui al comma 2-bis, i soggetti di cui alle lettere b-bis) e b-ter) del comma 1 acquistano la cittadinanza, senza ulteriori condizioni, se ne fanno richiesta entro due anni dal raggiungimento della maggiore età».



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Art. 2.
(Minori).

1. Il comma 2 dell'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dai seguenti:

«2. Lo straniero nato o entrato in Italia entro il quinto anno di età, che vi abbia risieduto legalmente fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino italiano a meno che non esprima esplicito rifiuto. Qualora la legislazione del Paese di origine non lo consenta, è richiesta al soggetto un'opzione.
2-bis. Il figlio minore di genitori stranieri acquista la cittadinanza italiana su istanza dei genitori o del soggetto esercente la potestà genitoriale secondo l'ordinamento del Paese di origine se ha completato un corso di istruzione primaria o secondaria di primo grado ovvero secondaria di secondo grado presso istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione di cui all'articolo 1, comma 1, della legge 10 marzo 2000, n. 62, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale idoneo al conseguimento di una qualifica professionale. Entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, il soggetto può rinunciare, se in possesso di un'altra cittadinanza, alla cittadinanza italiana.
2-ter. Il soggetto di cui al comma 2-bis, alle medesime condizioni ivi indicate, diviene cittadino italiano al raggiungimento della maggiore età o comunque una volta completato il percorso scolastico o professionale a meno che non esprima esplicito rifiuto. Qualora la legislazione del Paese di origine non lo consenta è richiesta al soggetto un'opzione».

Art. 3.
(Matrimonio e adozione di maggiorenne).

1. L'articolo 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dal seguente:

«Art. 5. - 1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la



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cittadinanza italiana, quando, dopo il matrimonio, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all'estero, qualora, nel suddetto periodo, non sia intervenuto lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi ovvero quando sia già in essere un precedente vincolo matrimoniale nel Paese di origine.
2. I termini di cui al comma 1 non sono vincolanti in presenza di figli nati o adottati dai coniugi.
3. Lo straniero può inviare al Ministro dell'interno entro trenta giorni dallo scioglimento, dall'annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovvero dalla separazione personale dei coniugi, integrazioni alla documentazione già presentata, idonee a dimostrare la sussistenza di un altro titolo per l'attribuzione o per la concessione della cittadinanza. In tale caso il termine per la conclusione del procedimento è esteso a trentasei mesi complessivi.
4. Lo straniero maggiorenne, adottato da cittadino italiano, acquista la cittadinanza italiana se risiede legalmente nel territorio della Repubblica, senza interruzioni, per almeno due anni successivamente all'adozione».
Art. 4.
(Attribuzione della cittadinanza).

1. Dopo l'articolo 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, come sostituito dall'articolo 3 della presente legge, è inserito il seguente:

«Art. 5-bis. - 1. Acquista la cittadinanza italiana, su propria istanza e alle condizioni di cui all'articolo 5-ter, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'interno:

a) lo straniero che da almeno cinque anni soggiorna legalmente nel territorio della Repubblica, senza interruzioni, e



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attualmente vi risiede e che è in possesso di un requisito reddituale non inferiore a quello richiesto per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, ai sensi dell'articolo 9 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come da ultimo sostituito dall'articolo 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3;

b) il cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea che risiede legalmente da almeno tre anni nel territorio della Repubblica;

c) lo straniero regolarmente soggiornante in Italia da almeno tre anni a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato».

Art. 5.
(Verifica dell'integrazione linguistica e civica dello straniero).

1. Dopo l'articolo 5-bis della legge 5 febbraio 1992, n. 91, introdotto dall'articolo 4 della presente legge, è inserito il seguente:

«Art. 5-ter. - 1. L'acquisizione della cittadinanza italiana nell'ipotesi di cui all'articolo 5-bis, comma 1, lettera a), è condizionata alla verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio della Repubblica, riscontrata:

a) da una conoscenza della lingua italiana parlata equivalente al livello A2, di cui al quadro comune europeo di riferimento delle lingue, approvato dal Consiglio d'Europa;

b) dalla conoscenza soddisfacente della vita civile dell'Italia e della Costituzione italiana.

2. Lo straniero che risultasse inidoneo alla verifica di cui al comma 1 ha diritto a ripeterla senza limitazioni a condizione che siano passati almeno quattro mesi dalla comunicazione dell'esito della stessa. Il provvedimento di acquisizione della cittadinanza rimane pendente fino all'accertamento



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delle condizioni di cui alle lettere a) e b) del citato comma.
3. Il Governo individua e riconosce, anche in collaborazione con le regioni e con gli enti locali, le iniziative e le attività finalizzate a rendere edotto lo straniero circa le modalità e le possibilità per l'acquisizione della conoscenza della lingua, della cultura e della Costituzione italiane nonché a sostenere il processo di integrazione linguistica e sociale secondo modalità stabilite ai sensi dell'articolo 25.
4. Secondo modalità stabilite ai sensi dell'articolo 25, sono determinati i titoli idonei ad attestare il possesso del livello della conoscenza della lingua italiana di cui al comma 1 del presente articolo, nonché le attività il cui svolgimento costituisce titolo equipollente. Con le medesime modalità sono determinati la documentazione da allegare all'istanza, ai fini dell'attestazione dei requisiti di cui al citato comma 1, le modalità del colloquio diretto ad accertare la sussistenza dei requisiti medesimi, nonché i casi straordinari di giustificata esenzione dal possesso dei requisiti di cui al medesimo comma 1.

5. L'acquisizione della cittadinanza italiana impegna il nuovo cittadino al rispetto, all'adesione e alla promozione dei valori di libertà, di eguaglianza e di democrazia posti a fondamento della Repubblica italiana».
Art. 6.
(Motivi preclusivi dell'attribuzione della cittadinanza).

1. L'articolo 6 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dal seguente:

«Art. 6 - 1. Precludono l'attribuzione della cittadinanza ai sensi degli articoli 4, comma 2-bis, 5 e 5-bis:

a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale;

b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge prevede una



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pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione;

c) la condanna per un reato non politico a una pena detentiva superiore a un anno da parte di un'autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza è stata riconosciuta in Italia;

d) la dichiarazione di delinquenza abituale;

e) la condanna per uno dei crimini o delle violazioni previsti dallo Statuto del Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, adottato a New York il 25 maggio 1993, o dallo Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, firmato a New York l'8 novembre 1994, o dallo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 17 luglio 1998, reso esecutivo dalla legge 12 luglio 1999, n. 232.

2. L'attribuzione della cittadinanza non è preclusa quando l'istanza riguarda un minore condannato a una pena detentiva non superiore ai due anni.

3. Il riconoscimento della sentenza straniera, anche ai soli fini ed effetti di cui al comma 1, lettere c) ed e), del presente articolo è richiesto dal procuratore generale del distretto dove ha sede l'ufficio dello stato civile in cui è iscritto o trascritto il matrimonio, nei casi di cui all'articolo 5, ovvero dal procuratore generale del distretto nel quale è compreso il comune di residenza dell'interessato, nei casi di cui agli articoli 4, comma 2-bis, e 5-bis.

4. La riabilitazione o l'estinzione del reato fanno cessare gli effetti preclusivi della condanna.

5. L'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, ovvero l'inizio dell'azione penale per uno dei reati indicati nelle lettere a) e b) del comma 1, ovvero l'apertura del procedimento di riconoscimento della sentenza straniera indicata nella lettera c) del citato comma 1, ovvero



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i provvedimenti che dispongono l'arresto, la cattura, il trasferimento o il rinvio a giudizio oppure la sentenza di condanna anche non definitiva pronunciati ai sensi dei rispettivi Statuti dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia o dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda o dalla Corte penale internazionale determinano la sospensione del procedimento per l'attribuzione della cittadinanza. Il procedimento è sospeso fino alla comunicazione della sentenza definitiva o del decreto di archiviazione ovvero del provvedimento di revoca della misura cautelare perché illegittimamente disposta. Del provvedimento di sospensione è data comunicazione all'interessato».
Art. 7.
(Decreto di attribuzione della cittadinanza).

1. Il comma 1 dell'articolo 7 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dai seguenti:

«1. Ai sensi dell'articolo 5, la cittadinanza si acquista con decreto del Ministro dell'interno, a istanza dell'interessato.

1-bis. Le istanze proposte ai sensi degli articoli 5, 5-bis e 9 si presentano al Prefetto competente per territorio in relazione alla residenza dell'istante o alla competente autorità consolare».

Art. 8.
(Procedura di reiezione delle istanze).

1. L'articolo 8 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dal seguente:

«Art. 8. - 1. Con decreto motivato, il Ministro dell'interno respinge l'istanza presentata ai sensi dell'articolo 4, comma 2-bis, dell'articolo 5-bis, comma 1, e dell'articolo 7, comma 1, ove sussistano le cause ostative indicate all'articolo 6».



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Art. 9.
(Reiezione per motivi di sicurezza della Repubblica).

1. Dopo l'articolo 8 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, come sostituito dall'articolo 8 della presente legge, è inserito il seguente:

«Art. 8-bis. - 1. Qualora sussistano motivi tali da far ritenere il richiedente pericoloso per la sicurezza della Repubblica, il Ministro dell'interno, su parere conforme del Consiglio di Stato, respinge con decreto motivato l'istanza presentata ai sensi dell'articolo 7, comma 1-bis, dandone comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri.

2. Qualora risulti necessario acquisire ulteriori informazioni in ordine alla pericolosità del richiedente per la sicurezza della Repubblica, il Ministro dell'interno sospende il procedimento per l'attribuzione della cittadinanza per un periodo massimo di tre anni, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.

3. L'istanza respinta ai sensi del presente articolo può essere riproposta decorsi due anni dalla data del decreto di reiezione».

Art. 10.
(Concessione della cittadinanza).

1. All'articolo 9, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1:

1) la lettera b) è sostituita dalla seguente:

«b) al minore straniero o apolide che ha frequentato integralmente un ciclo scolastico in Italia, al raggiungimento della maggiore età»;

2) la lettera d) è abrogata;

3) alla lettera e) la parola: «cinque» è sostituita dalla seguente: «tre»;

4) la lettera f) è abrogata;



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b) è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«2-bis. Ai fini della concessione della cittadinanza ai sensi dei commi 1 e 2, l'interessato non è tenuto a dimostrare alcun requisito di reddito».

Art. 11.
(Giuramento).

1. L'articolo 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dal seguente:

«Art. 10. - 1. Il decreto di attribuzione o di concessione della cittadinanza acquista efficacia dal giorno successivo alla sua emanazione.
2. Il nuovo cittadino viene convocato per la cerimonia di giuramento entro un anno dalla data di emanazione del decreto di cui al comma 1. Il rifiuto a prestare giuramento o l'ingiustificata assenza alla cerimonia è motivo per la revoca del provvedimento di attribuzione o di concessione della cittadinanza.

3. Il nuovo cittadino presta giuramento pronunciando la seguente formula: "Giuro di osservare la Costituzione della Repubblica italiana, di rispettarne i princìpi fondamentali e di riconoscere i diritti e i doveri dei cittadini e la pari dignità sociale di tutte le persone".

4. In occasione del giuramento è consegnata al nuovo cittadino copia della Costituzione».

Art. 12.
(Doppia cittadinanza).

1. Dopo l'articolo 11 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è inserito il seguente:

«Art. 11-bis. - 1. Ai fini dell'acquisizione della cittadinanza non è richiesta la rinuncia alla cittadinanza straniera».



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Art. 13.
(Abolizione dell'equiparazione tra rifugiati e apolidi).

1. Il comma 2 dell'articolo 16 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è abrogato.

Art. 14.
(Casi particolari di riacquisto o acquisto della cittadinanza).

1. All'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, le parole: «entro due anni dall'entrata in vigore della presente legge» sono soppresse;

b) il comma 2 è sostituito dal seguente:

«2. Possono altresì riacquistare o acquistare la cittadinanza:

a) la donna che, già cittadina italiana per nascita, ha perduto la cittadinanza per effetto del matrimonio con cittadino straniero, quando il matrimonio è stato contratto prima del 1o gennaio 1948;

b) il figlio della donna di cui alla lettera a), ancorché nato anteriormente al 1o gennaio 1948, anche qualora la madre sia deceduta;

c) i soggetti, ancorché nati anteriormente al 1o gennaio 1948, figli di padri o di madri cittadini»;

c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«2-bis. Il diritto al riacquisto o all'acquisto della cittadinanza ai sensi dei commi 1 e 2 è esercitato dagli interessati mediante presentazione di una dichiarazione resa al sindaco del comune di residenza dell'istante, oppure alla competente autorità consolare previa produzione di idonea documentazione ai sensi di quanto disposto con decreto del Ministro dell'interno emanato di concerto con il Ministro degli affari esteri».



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Art. 15.
(Prestazione del giuramento).

1. All'articolo 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, le parole: «e la prestazione del giuramento» sono soppresse;

b) dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti:

«1-bis. La prestazione del giuramento di cui all'articolo 10 è resa dinanzi al sindaco del comune di residenza dell'istante, ovvero, in caso di residenza all'estero, dinanzi all'autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza, secondo modalità stabilite ai sensi dell'articolo 25.
1-ter. La prefettura-ufficio territoriale del Governo provvede a convocare l'interessato per il giuramento secondo modalità che garantiscono il rispetto del termine di cui all'articolo 10, comma 1».

Art. 16.
(Modalità di computo del periodo di residenza legale).

1. Dopo l'articolo 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, come modificato dall'articolo 15 della presente legge, è inserito il seguente:

«Art. 23-bis. - 1. Ai fini della presente legge, per il computo del periodo di residenza legale, se prevista, si calcola come termine iniziale la data di presentazione della relativa dichiarazione anagrafica resa dal soggetto interessato al competente ufficio comunale, qualora ad essa consegua la registrazione nell'anagrafe della popolazione residente».



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Art. 17.
(Disciplina di attuazione).

1. Il Governo provvede, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, a riordinare e ad accorpare in un unico regolamento le disposizioni di natura regolamentare vigenti in materia di cittadinanza.
2. Il regolamento di cui al comma 1 del presente articolo è emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, con le modalità di cui all'articolo 25 della legge 5 febbraio 1992, n. 91.
3. Il regolamento di cui al comma 1 reca le disposizioni di attuazione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, disciplina i procedimenti amministrativi per la concessione e per l'attribuzione della cittadinanza e stabilisce, per la conclusione dei medesimi procedimenti, un termine improrogabile, non superiore a ventiquattro mesi dalla data di presentazione dell'istanza, fermo restando quanto previsto dall'articolo 5, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, come sostituto dall'articolo 3 della presente legge.

Art. 18.
(Disposizioni transitorie).

1. Coloro che alla data di entrata in vigore della presente legge hanno già maturato i requisiti di cui all'articolo 1, comma 1, lettere b-bis) e b-ter), e all'articolo 4, comma 2-bis, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, inseriti, rispettivamente, dagli articoli 1 e 2 della presente legge, acquistano la cittadinanza italiana se effettuano una dichiarazione in tale senso entro tre anni dalla data di entrata in vigore del regolamento di cui all'articolo 17 della presente legge.