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domenica 19 febbraio 2012

Legami da spezzare Azione politica e azione non-violenta


Pubblicato su Ippogrifo 6- Inverno 2011

 

 Premessa

Trovare una forma di associazione che difenda e protegga,mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti non ubbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima
Jean-Jaques Rousseau, Il contratto sociale, 1762

Il mondo, sempre più piccolo e allo stesso tempo sempre più parcellizzato, sembra essere alla disperata ricerca di un nuovo contratto sociale, per legare insieme i fili delle relazioni comunitarie.
La democrazia e la dittatura sono oggi concetti fluidi a volte persino opinabili, se accade che i dittatori vengano lodati come democratici e i democratici vengano trattati come tiranni. Le rivoluzioni sono un accadimento, come lo sono le elezioni, spostano potere, legittimano e delegittimano allo stesso tempo i legami civili, trasformano e distruggono il prima e non assicurano il dopo. La politica, soprattutto in questo tardo '900 e inizio nuovo millennio, è priva di grandi visioni prospettiche, attanagliata da sistemi economici inefficienti e prepotenti, tensioni nazionaliste, ortodossie religiose e approcci da Stato etico.
La primavera araba, così come lo furono le rivoluzioni colorate degli stati ex sovietici, è oggi l'emblema di un profondo ripensamento del metodo rivoluzionario.
Prima di legarsi bisogna perciò sciogliere alcuni nodi.

 

Il nodo slegato


Alessandro si fece condurre al cospetto del nodo, provò forse a tentarne la corda; o forse aveva già deliberato la sua soluzione: sguainò la spada, e recise a mezzo il nodo. Aveva ventitré anni , non aveva tempo da perdere, l'Asia sarebbe stata sua.
Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo, 1995

Il legame è ciò che serve a legare, è esso stesso il nodo che unisce.
Il legame ha due terminali, un inizio e una fine, un in mezzo.
In mezzo c'è un filo costituito da un intreccio di materia sociale, politica, economica. Il legame ha come antidoto la slegatura e il taglio.
Il nodo si taglia o si slega? La dicotomia recisione/scioglimento è corrispondente a violenza/non violenza, guerra/pace, sbagliato/giusto?
Pensare in questo modo la struttura del legame, e la sua risoluzione, porta dunque a dare un'accezione etica, diversa da un approccio pragmatico in cui è la sostenibilità delle relazioni a chiarire la dinamica della violenza e della non violenza nei processi politici.
La (in)sostenibilità dei legami politici, e la loro funzionalità materiale, è data dalla pazienza che vogliamo o possiamo investire per risolverli.
La politica è: uomini, mezzi e fini, per dirlo in tre parole. Ovvero, aggiornandola ad oggi, cittadini, legami, sostenibilità.
Proprio perché la politica è costituita da una moltitudine di connessioni che sono indipendenti dalla forma di governo, la realizzazione dei fini della polis o, se vogliamo usare termini oggi più in voga, della comunità, non dipendono dalla forma di governo quanto dalla capacità di governare la sostenibilità stessa delle relazioni.

Dittatura vs democrazia

Se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitario
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951.

La dittatura è una struttura di relazioni di grandissima efficienza. Ogni più lontano terminale comunitario (associazione, sezione di partito, circolo ricreativo, luogo di culto, luogo di lavoro o di svago) è strettamente legato al potere. Anzi, ne costituisce, consciamente o meno, il sistema immunitario.
Il legame comunitario all'interno di una dittatura non ammette libertà e sistematicamente usa la violenza come medium, come collante che, nella sua applicazione quotidiana, diventa sinonimo di terrore.
Uno Stato totalitario, etico e necessariamente sociale, individua un nemico, una diversità, e, attraverso il processo del consenso e dell'immedesimazione di massa, instaura legami omologanti che tendono ad escludere le eccezioni che diventano il pericolo identitario, il potenziale distruttore dei legami politici del regime.
La comunità diventa massa, Popolo e dunque Stato, perdendo ogni interesse a legami sociali diversi da quelli finalizzati al bene comune dogmatico. Così l'amore è funzionale allo Famiglia, l'educazione alla Cultura, il lavoro al Progresso, la religione alla Chiesa, la società alla Patria, il diritto alla Verità, il territorio alla Guerra. Il cittadino infine è funzionale allo Stato e non il contrario.

 

L'esempio perfetto

Lo statalismo è la forma superiore che assumono la violenza e l'azione diretta trasformate in norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono autonomamente.
La ribellione delle masse, Josè Ortega Y Gasset

I regimi dittatoriali trasformano il legame sociale, in funzione del potere carismatico, in comando, ordine e infine in asettica direttiva, circolare, decreto.
L'ordine, che costituisce il legame stesso ed è sempre banalmente violento è distribuito burocraticamente fra l'intera popolazione in una efficacissima riduzione ad inezia di ogni piccola azione.
La deresponsabilizzazione in una catena di comando lunga, complessa e ritualizzata attribuisce direttamente alla Volontà del Popolo, incarnata dal dittatore stesso, la responsabilità. Questo secondo passaggio autorizza tutti ad essere sollevati dalla responsabilità personale, individuale, in nome della più ampia e condivisa Gleichschaltung (sincronizzazione, coordinamento), così come la chiamavano i nazisti.
Verrebbe da dire che i legami, così concepiti, sono sempre politici e sempre violenti e che ognuno ha fatto solo quello che gli è stato ordinato di fare.

 

Libertà è violenza: un ossimoro?

L'ottimista proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il pessimista teme che sia vero
James Branch Cabell, The Silver Stallion, 1926

La domanda è: come liberarsi della violenza intrinseca nei legami politici (dei regimi)?
Una qualsiasi prospettiva non-violenta della transizione dei regimi da dittatoriali a democratici sconta il dogma: la violenza chiama violenza.
Bisogna allora intendersi sui termini violenza e non-violenza. Affrontare il problema dal punto di vista teorico, dimenticando che la politica è soprattutto prassi comunitaria e non solo etica e morale, porta ad allontanarsi dall'essenza di ciò che più correttamente dovremmo chiamare semplicemente Politica.
Bisogna ripartire dal legame e dalla sua funzione di struttura portante dell'azione politica, insomma ritrovare la democrazia (rappresentativa).
La democrazia funziona su connessioni deboli, continuamente e volontariamente modificabili. É la sua forza e si chiama contratto sociale ed è condiviso attraverso le leggi, le rappresentanze e sopratutto la delega.
Le elezioni slegano i cittadini da ogni subalternità con il proprio rappresentante, gli elettori non perdono responsabilità ma la delegano. Non è un ideale bene comune a rappresentare la comunità, la polis, ma è l'eletto fino al momento in cui smette di essere votato. Almeno così dovrebbe essere.
Il regime democratico trasferisce porzioni di potere secondo criteri condivisi, le elezioni, e resiste fino a che tutti possono sperare di esercitare, a tempo determinato, il potere.
Per questo la democrazia è sostenibile, contrariamente alla dittatura. Perché i suoi legami non sono fondati sull'imposizione, sulla sudditanza, sulla convenienza e sulla sopravvivenza, ma si basano sulla mutabilità, sulla contrattazione, sulla condivisione e il riconoscimento del bene comune.
La democrazia sopravvive agli uomini che la rappresentano, la dittatura assai difficilmente può vantare la stessa longevità.

 

Rivoluzioni e conservazioni

Il colpo di stato, invece, è politicamente neutro, e non esiste alcuna presunzione che, dopo la conquista del potere, si seguirà una particolare politica.
Strategia del colpo di stato, Edward Luttwak ,1972

Quali sono le armi per modificare, sciogliere e recidere i fili che legano il potere alla repressione? Dove sono i terminali delle connessioni? Un organismo complesso come uno Stato può permettersi di perdere legami senza morire?
Vale la pena dissanguare, e non solo metaforicamente, uno Stato per ricostruire da zero i legami comunitari, per riscrivere un nuovo contratto sociale?
Dunque la Libertà è necessariamente violenza?
Cosa succede in un paese quando le forze in campo decidono di cambiare le regole, ovvero di cambiare regime, cosa succede quando dalla dittatura si vuol passare alla democrazia?
La conservazione del potere è la caratteristica principale dei regimi totalitari. Finché il legame politico non viene modificato, controllato e addomesticato il potere non si sposta.
Sciogliere le connessioni con il passato (regime) è sempre una rivoluzione ed è sempre e comunque tranciante, modificante e un cambio di potere non certifica che il risultato sia buono o cattivo.
Le rivoluzioni possono cadere dall'alto, imponendo un nuovo potere, o possono nascere dal basso, rimontando e ricostituendo la struttura politica. Questa schematizzazione semplicistica ha avuto nella realtà storica molteplici variabili, più o meno elitarie, più o meno popolari o militari. É una questione di potere, una traslazione di potere da un gruppo ad un altro, da una persona ad un'altra, da una classe ad un'altra: rivoluzione, pronunciamiento, putsch, guerra di liberazione, insurrezione, rivoluzione, la sostanza non cambia.
Una tabula rasa su cui riscrivere i nuovi contratti comunque dev'essere preparata.

 

La non-violenza è un metodo

La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.
Karl von Clausewitz, Della Guerra, 1834

La non-violenza è un metodo, prima ancora di una filosofia, e come tale ha bisogno di studio, applicazione e disciplina. Esattamente come la guerra.
Non vi sono metodi immorali, ma azioni e politiche immorali si.
Dunque è evidente che non si può imputare al metodo il risultato, come non si può accusare i mezzi dei fini perseguiti.
Il '900 ci ha raccontato che proprio a causa delle migliori intenzioni si sono perpetrate le peggiori nefandezze, ci ha raccontato che la guerra è un metodo efficace ma terribilmente costoso, anche in termini di legami sociali lacerati e mai ricostruibili.
Perché allora scegliere un metodo chiamato non-violenza?
Perché i metodi di Gandhi, Martin Luther King, Lech Walesa, Gene Sharp e dei nostri Danilo Dolci e Aldo Capitini sarebbero più efficaci di quelli di Charles De Gaulle, Malcom X, o dei nostri Giuseppe Garibaldi o Sandro Pertini?
Le azioni di tutti loro sono state modificanti, distruttive e rivoluzionarie. Quando parliamo di cambio di stato dello Stato presupponiamo che la non-violenza non sia pacifismo così come la guerra non sia bellicismo.
La non-violenza è logorare, la guerra è tagliare. La prima usa la pazienza al fine di sciogliere il nodo scorsoio da cui intende liberarsi. Un gioco pericoloso perché come tutti sanno i nodi più tiri più si stringono.
La guerra, d'altra parte, tende ad usare un'ascia per tagliare un filo da pesca...

 

Azione politica, una questione di strumenti e parole

L'azione non violenta è una tecnica per condurre conflitti, al pari della guerra, del governo parlamentare, della guerriglia. Questa tecnica usa metodi psicologici, sociali, economici e politici. Essa, è stata usata per obiettivi vari, sia "buoni" che "cattivi"; sia per provocare il cambiamento dei governi sia per supportare i governi in carica contro attacchi esterni. Il suo utilizzo è unicamente responsabilità e prerogativa delle persone che decidono di utilizzarlo
Gene Sharp, CORRECTIONS, An open letter from Gene Sharp, 2007

Chi usa la parola non-violenza sa di fare in Italia un'operazione che assorbe i concetti, i retaggi culturali e sopratutto dimostra una profonda ed inequivocabile vena elitaria.
Il nostro Paese non è un Paese per non-violenti, forse perché non è uno Stato compiutamente democratico, ne definitivamente dittatoriale. La non-violenza ha bisogno di chiarezza, puntualità e pazienza, doti che forse oggi (?) non siamo in grado di esprimere.
Per aggirare l'ostacolo dovremmo avere il coraggio di parlare più prosaicamente di azione politica o ancora meglio, come fa Gene Sharp, di political defiance, ovvero dimenticare le ragioni filosofiche e concentrarci su quelle pratiche.
La parola defiance è talmente ricca da essere essa stessa un manuale di azione politica non-violenta: resistenza, opposizione, non complicità, disobbedienza, insubordinazione, dissenso, renitenza, sovversione, ribellione; oltraggio, disattenzione, rifiuto, insolenza.
Proprio l'azione politica va a sciogliere quei legami insostenibili, perversi e immobili che costituiscono la trama di un regime.
Ogni parola diviene strumento applicativo e non mera manifestazione d'intenti, ed è in questo che la (non-violenta) azione politica riesce ad essere assai più efficace della (violenta) azione politica.
Per tagliare la trama del regime si deve costituire una nuova rete di legami solidi, e al contempo elastici, in grado di sostenere durante la lotta i cittadini e allo stesso tempo preparare un nuovo tessuto sociale e un nuovo contratto democratico.
Gli strumenti sono fondamentali per legare i cittadini. Come la prima guerra mondiale ha costituito il primo vero terrificante banco di prova delle masse e dei regimi totalitari, l'89 ha messo alla prova gli individui democratici e continua, in un fenomeno di lunga durata, a sollecitare l'applicazione di metodi di disobbedienza civile.
Come fare azione politica, sapere che esistono metodi, tecniche, manuali è rassicurante per chi, come sempre più spesso oggi pare accadere, ha desiderio di diventare nuovamente azionista del proprio futuro e della propria comunità. Per chi voglia tornare a riprendersi la delega politica, troppo spesso considerata in bianco.
Le primavere arabe, così come le rivoluzioni colorate (le uniche che anagraficamente posso ricordare) hanno dimostrato che nulla è inscalfibile, nemmeno piazza Tienanmen.

 

Bibliografia sragionata.

L'uomo libero conferisce alle armi il loro significato
Trattato del Ribelle, Ernst Jünger

Jean-Jaques Rousseau, Il contratto Sociale, Milano 2010
Karl von Klausewitz, Della Guerra, Milano 1970
Amartya Sen, La ricchezza e la ragione, Bologna 2000
Amartya Sen, Globalizzazione e libertà, Milano 2002
William Volmann, Come un'onda che sale e che scende, Milano 2007
Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, Palermo 1995
José Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, Milano 2001
Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Milano 2002
Gene Sharp, Come abbattere un regime Manuale di liberazione nonviolenta,Milano 2011
Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Milano 1990
Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta voll. I-II-III, Torino 1985
M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Torino 1996
Edward Luttwack, Strategia del colpo di stato. Manuale pratico, Milano 1983
Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, Milano 1992
Jean Marie Muller, Manuale di azione nonviolenta per la Lega Nord, Venezia 1993
Morjane Baba, Guerrilla Kit, Milano 2005
Alberto Martinelli e Alessando Cavalli a cura di, Il black panther party, Torino 1974
Ian Kershaw, L'enigma del Consenso, Bari 2007
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino 2009

lunedì 13 febbraio 2012

editoriale diffuso...

Bozzetti introduttivi alle sezioni dell'Ippogrifo 6, inverno 2011.

Il gioco dei legami

Il gioco è libertà ma la libertà non è un gioco.
Fausto Melotti, Linee

Guardo il campo di gioco: è sempre quello. Tre pali per due, linee di gesso per terra, quattro angoli a cui arrivare e un centro da cui partire. I giocatori aspettano che le regole siano ricordate e che l'arbitro dia avvio alla partita. Guardano il pubblico che aspetta trepidante.
Qualcuno violerà le regole, qualcuno scatterà furbescamente e strapperà la vittoria, qualcuno si farà male, qualcuno perderà, tutti giocheranno, anche chi non toccherà l'erba.
Alla fin fine è solo un gioco, alla fin fine è tutto qui: regole, trasgressione, vittoria e sconfitta.
Biglietto ben speso.

Legami locali

Confine, sost. In geografia politica, una linea immaginaria tra due nazioni che separa i diritti immaginari dell'una dai diritti immaginari dell'altra.
Ambrose Bierce, Il dizionario del diavolo

In questa terra il confine è segnato da un fiume slabbrato.
È già difficile normalmente raccapezzarsi fra paesi dai nomi fantasiosi, dalle finali tronche e dagli accenti non sai mai se sdruccioli o piani, senza trovarsi anche a zigzagare fra enclave americane, zone industriali e immaginari scientifici, sussurri e grida.
Provo a camminare fra la gente. Sembra di essere a casa, a casa di buona parte di quel mondo che è venuto a ricucirsi la vita sul confine di un fiume dagli orli frastagliati. Me compreso.

Legami insostenibili

La legge della maggioranza non è sempre sinonimo di democrazia, di libertà e di uguaglianza; talvolta è sinonimo di tirannia, di asservimento e di discriminazione.
Amin Maalouf, Les identités meurtrières

Alla manifestazione c'era poca gente. Cartelli scritti a mano, bandiere variopinte, tanti poliziotti quanti manifestanti. Un rapporto 1 a 1.
Ho incontrato un vecchio amico dall'inconfondibile barba incolta rivoluzionaria. Beato lui che può manifestare, almeno il diritto di farlo gli è rimasto. Ho fatto la mia piccola manifestazione anche io, non sono andato a lavorare, più di questo non mi è permesso. Il mio preside diceva: non si può scioperare se non si lavora. Pensavo bastasse. La frase corretta era: non puoi manifestare se non sei qualcuno, o qualche cosa... ed io cosa sono?
Una vecchia barbona, antipatica, mi assilla con la dose quotidiana di lavaggio a secco di coscienza. Oggi sono buono e le sorrido.

Legami più che umani
La religione è semplicemente un insieme di pensiero e azione, di princìpi e di atti (che possono accrescersi e variare) allo scopo di preparare e formare in noi l'apertura religiosa.
Aldo Capitini, Religione Aperta

Il pavimento è gelido. Sarà perché è inverno. Nella cripta sotto l'altare maggiore ci sono tre pie donne in legno, una pietà complessa. Un tempo, forse, al posto delle statue c'era una piccola fonte d'acqua.
Parlo con un po' di soggezione di culti assorbiti, di sincretismi e persecuzioni, di donne volanti unte dal Diavolo e di uomini santi unti dal Signore.
Sarà perché piove, a goccioline infinitesimali, ma sto meglio dentro che fuori. Il freddo ai piedi, l'umidità nelle ossa?
Tutto si cura nel silenzio più che nel rumore.

Camminare, una rivoluzione- Recensione Ippogrifo


Pubblicato su Ippogrifo 6, inverno 2011

Camminare, una rivoluzione
Labbucci Adriano
Donzelli, Collana Saggine
2011
Pagine 100,
EAN 9788860366283


Dovrei scrivere queste note camminando, o almeno pensarle, spostandomi da un luogo ad un altro. Avrei dovuto leggere Camminare, una rivoluzione deambulando e non seduto in poltrona come ho fatto.
La prima domanda è: Camminare è spostarsi da A a B, raggiungere una meta, arrivare ad un(a) fine? O camminare è indeterminato, è senza tempo, senza motivo, senza distanza?
Camminare è contemporaneamente mezzo e fine, attraverso e meta, in cui è predominante la dimensione del piacere e della curiosità come fine in sé, non strumento per qualche altra cosa. (p.18)
In questo è rivoluzionario, pretende di cambiare non solo la realtà ma anche l'immaginazione, i camminatori, racconta Labbucci, non contano i passi, ma contano i luoghi, archiviano emozioni e non battiti del cuore.
Chi cammina lo fa comodamente, è leggero ma non nudo, è costante ma non inflessibile, si ferma quando vuole e riprende con la stessa noncuranza, è irrequieto ma non inquieto.
Andare a passeggio è una cosa che i bambini sanno fare, a modo loro, curiosi, attivi, ricettivi, trasformano ogni attività in un gioco segreto di cui raramente cogliamo le regole (conta i passi, stacca le gomme, scalcia i sassi, scrosta i muri, cammina sui bordi). Per loro, come per noi inconsapevolmente:
Camminare è libertà. Libertà è autonomia. Autonomia è rischio. Camminare è rischioso (p.63)
Oggi non passeggiamo più, non corriamo pericolo. Andiamo sempre da qualche parte a fare qualche cosa: comprare, lavorare, bere, mangiare, apprendere, curarsi. Non passeggiamo più, e non stiamo neanche più fermi.
Se passeggi sei un anormale: devi camminare in montagna, devi fare trekking, o fare un pellegrinaggio devozionale, camminare è troppo poco e, soprattutto, non produce nulla.
Se si è umili si cammina, con Dio o senza Dio; se si è superbi non si cammina si striscia.
L'umiltà è l'anima del camminare
Ricordo da ragazzo le infinite passeggiate circolari, una sorta di pratica sufi rallentata, un deambulare frenetico, a passi lenti e spavaldi, attento alle facce, ai vestiti, ai corpi dell'altro. Accadeva di scoprire angoli, altezze e vie di fuga inaspettate. La città, la piccola città della mia adolescenza, era il luogo della wilderness urbana inconsapevole.
Passeggiare permette questo: l'osservazione distratta.
Permette di vedere, guardare, osservare o studiare a seconda della curiosità, della casualità. Nel camminare non c'è nulla di trascendente, non si aspira ad una vetta ne si rischia di cadere in un baratro.
Solo camminare ci fa ritrovare, ci permette di passare decine di volte per la stessa strada e vederla sempre nuova: luminosa, oscura, fredda, calda, profumata o pestilenziale. Ogni particolare può cambiare, come naturalisti osserviamo le incrostazioni dei muri allo stesso modo dello sbocciare dei fiori. Labbucci ci racconta dei molti flâneur, dell'arte di andare a passeggio per le strade come se si fosse in collina fra filari di cipressi. Oggi che è tutto telecamere e sicurezza, che senso ha passeggiare in città? Oggi che persino le campagne sono ciclovie, ippovie, sentieri letterari, oggi che le piazze sono o parchi a tema aperitivo, o sono deserte senza bar e negozi, oggi che le piazze sono quelle dei centri commerciali con tanto di bancarelle e giocolieri che senso ha passeggiare?
Solo camminando si può scoprire quante persone e quante porte possono ancora aprirsi sull'onda di un «Buongiorno» e portando con sé il sorriso migliore, quante riserve di umanità e gentilezza si possono ancora trovare se si esce e si riesce a parlare. (p.144)
Camminare, una rivoluzione rende omaggio a Bruce Chatwin, al suo nomadismo intellettuale, ci ricorda che camminare ci permette di passare sulla terra leggeri, di incidere sulla storia con la nostra vita, con la nostra singola diversità, di transitare dalla normalità, sempre banale, alla alterità, sempre unica e pericolosa.
È una verità storica che nei regimi dittatoriali il movimento, in ogni sua forma, è guardato con sospetto, elemento di disturbo da tenere a freno poiché rompe l'ordine imposto. (p.48)
Camminare è politico, è comunità. Si cammina da soli, sempre, perchè camminare è anarchico , è individualista, è democratico.
Le dittature marciano, fanno adunate, schierano masse e non individui. Per muoversi, nelle dittature, servono timbri, documenti, autorizzazioni, motivi validi. Non ci si muove da soli ma in modo coatto, prestabilito o accompagnati.
Camminare permette di pensare, di parlare e di stare zitti. Di riposare e di fermarsi, di stancarsi e di rinfrancarsi.
La politica dovrebbe essere la stessa cosa: pensare, parlare, rinfrancarsi, fermarsi a riposare. Far riposare la comunità, farla godere di ciò che il pensiero e la parola hanno trasformato in politica e la politica in azione e Labbucci ci ricorda che si può, ancora, fare.

venerdì 10 febbraio 2012

povertà, miseria e austerità

in un periodo di povertà latente, miseria evidente e sobrietà nascente leggere l'austerità di Tony Judt è illuminante.

Austerity by Tony Judt | The New York Review of Books

My wife earnestly instructs Chinese restaurants to deliver in cardboard cartons. My children are depressingly knowledgeable about climate change. Ours is an environmental family: by their standards, I am a prelapsarian relic from the age of ecological innocence. But who traipses through the apartment switching off lights and checking for leaking faucets? Who favors make-do-and-mend in an era of instant replacement? Who recycles leftovers and carefully preserves old wrapping paper? My sons nudge their friends: Dad grew up in poverty. Not at all, I correct them: I grew up in austerity.
After the war everything was in short supply. Churchill had mortgaged Great Britain and bankrupted the Treasury in order to defeat Hitler. Clothes were rationed until 1949, cheap and simple “utility furniture” until 1952, food until 1954. The rules were briefly suspended for the coronation of Elizabeth, in June 1953: everyone was allowed one extra pound of sugar and four ounces of margarine. But this exercise in supererogatory generosity served only to underscore the dreary regime of daily life.
To a child, rationing was part of the natural order. Indeed, long after the practice ceased, my mother convinced me that “sweets” (candy) were still restricted. When I protested that school friends appeared to have unlimited access to the stuff, she explained disapprovingly that their parents must be on the black market. Her story was all the more credible because the legacy of war was ever-present. London was pockmarked with bomb sites: where once there had been houses, streets, railway yards, or warehouses there were now large roped-off areas of dirt, usually with a dip in the middle where the bomb had fallen. By the early 1950s unexploded ordnance had been mostly cleared and bomb sites—though off-limits—were no longer dangerous. But these impromptu play spaces were irresistible for small boys.
Rationing and subsidies meant that the bare necessities of life were accessible to all. Courtesy of the postwar Labour government, children were entitled to a range of healthful products: free milk but also concentrated orange juice and cod-liver oil—obtainable only in pharmacies after you established your identity. The orange juice came in rectangular, medicine-like glass bottles and I have never quite lost the association. Even today, a large glassful prompts in me a sublimated pang of guilt: better not drink it all at once. Of cod-liver oil, urged upon housewives and mothers by benevolently intrusive authorities, the less said the better.
We were fortunate to lease an apartment above the hairdressing shop where my parents worked, but many of my friends lived in substandard or temporary housing. Every British government from 1945 through the mid-1960s committed itself to large-scale public housing schemes: all fell short. In the early 1950s, thousands of Londoners still lived in “prefabs”: urban trailer parks for the homeless, ostensibly temporary but often lasting for years.
Postwar guidelines for new housing were minimalist: three-bedroom houses were to comprise at least nine hundred square feet of living space—about the size of a spacious one-bedroom apartment in contemporary Manhattan. Looking back, these homes seem not merely pokey, but chilly and underfurnished. At the time, there were long waiting lists: owned and managed by local authorities, such houses were intensely desirable.
The air over the capital resembled a bad day in Beijing; coal was the fuel of choice—cheap, abundant, and domestically produced. Smog was a perennial hazard: I recall leaning out of the car window, my face enveloped in a dense yellow haze, instructing my father on his distance from the curb—you could literally not see beyond an arm’s length ahead of you and the smell was awful. But everyone “muddled through together”: Dunkirk and the Blitz were freely invoked without a hint of irony to illustrate a sense of national grit and Londoners’ capacity to “take it”—first Hitler, now this.
I grew up at least as familiar with World War I as with the one that had just ended. Veterans, memorials, and invocations abounded; but the ostentatious patriotism of contemporary American bellicosity was altogether absent. War, too, was austere: I had two uncles who fought with Montgomery’s Eighth Army from Africa through Italy and there was nothing nostalgic or triumphalist in their accounts of shortage, error, and incompetence. Arrogant music hall evocations of empire—
We don’t want to fight them, but by Jingo if we do,We’ve got the ships, we’ve got the men, we’ve got the money too!
—had been replaced by the wartime radio lament of Vera Lynn: We’ll meet again, don’t know where, don’t know when. Even in the afterglow of victory, things would never be the same.
Reiterated references to the recent past established a bridge between my parents’ generation and my own. The world of the 1930s was with us still: George Orwell’s Road to Wigan Pier, J.B. Priestley’s Angel Pavement, and Arnold Bennett’s The Grim Smile of the Five Towns all spoke to an England very much present. Wherever you looked, there were affectionate allusions to imperial glory—India was “lost” a few months after I was born. Biscuit tins, pencil holders, schoolbooks, and cinema newsreels reminded us of who we were and what we had achieved. “We” is no mere grammatical convention: when Humphrey Jennings produced a documentary to celebrate the 1951 Festival of Britain, he called it Family Portrait. The family might have fallen on hard times, but we were all in it together.
It was this “togetherness” that made tolerable the characteristic shortages and grayness of postwar Britain. Of course, we weren’t really a family: if we were, then the wrong members—as Orwell had once noted—were still in charge. All the same, since the war the rich kept a prudently low profile. There was little evidence in those years of conspicuous consumption. Everyone looked the same and dressed in the same materials: worsted, flannel, or corduroy. People came in modest colors—brown, beige, gray—and lived remarkably similar lives. We schoolchildren accepted uniforms all the more readily because our parents too appeared in sartorial lockstep. In April 1947, the ever-dyspeptic Cyril Connolly wrote of our “drab clothes, our ration books and murder stories…. London [is] now the largest, saddest and dirtiest of great cities.”
Great Britain would eventually emerge from postwar penury—though with less panache and self-confidence than its European neighbors. For anyone whose memories go back no further than the later 1950s, “austerity” is an abstraction. Rationing and restrictions were gone, housing was available: the characteristic bleakness of postwar Britain was lifting. Even the smog was abating, now that coal had been replaced by electricity and cheap fuel oil.
Curiously, the escapist British cinema of the immediate postwar years—Spring in Park Lane (1948) or Maytime in Mayfair (1949), with Michael Wilding and Anna Neagle—had been replaced by hard-boiled “kitchen sink” dramas starring working-class lads played by Albert Finney or Alan Bates in gritty industrial settings: Saturday Night and Sunday Morning (1960) or A Kind of Loving (1962). But these films were set in the north, where austerity lingered. Watching them in London was like seeing one’s childhood played back across a time warp: in the south, by 1957, the Conservative Prime Minister Harold Macmillan could assure his listeners that most of them had “never had it so good.” He was right.
I don’t think I fully appreciated the impact of those early childhood years until quite recently. Looking back from our present vantage point, one sees more clearly the virtues of that bare-bones age. No one would welcome its return. But austerity was not just an economic condition: it aspired to a public ethic. Clement Attlee, the Labour prime minister from 1945 to 1951, had emerged—like Harry Truman—from the shadow of a charismatic war leader and embodied the reduced expectations of the age.
Churchill mockingly described him as a modest man “who has much to be modest about.” But it was Attlee who presided over the greatest age of reform in modern British history—comparable to the achievements of Lyndon Johnson two decades later but under far less auspicious circumstances. Like Truman, he lived and died parsimoniously—reaping scant material gain from a lifetime of public service. Attlee was an exemplary representative of the great age of middle-class Edwardian reformers: morally serious and a trifle austere. Who among our present leaders could make such a claim—or even understand it?
Moral seriousness in public life is like pornography: hard to define but you know it when you see it. It describes a coherence of intention and action, an ethic of political responsibility. All politics is the art of the possible. But art too has its ethic. If politicians were painters, with FDR as Titian and Churchill as Rubens, then Attlee would be the Vermeer of the profession: precise, restrained—and long undervalued. Bill Clinton might aspire to the heights of Salvador Dalí (and believe himself complimented by the comparison), Tony Blair to the standing—and cupidity—of Damien Hirst.
In the arts, moral seriousness speaks to an economy of form and aesthetic restraint: the world of The Bicycle Thief. I recently introduced our twelve-year-old son to François Truffaut’s 1959 classic Les Quatre Cents Coups (The 400 Blows). Of a generation raised on a diet of contemporary “message” cinema from The Day After Tomorrow through Avatar, he was stunned: “It’s spare. He does so much with so little.” Quite so. The wealth of resources we apply to entertainment serves only to shield us from the poverty of the product; likewise in politics, where ceaseless chatter and grandiloquent rhetoric mask a yawning emptiness.
The opposite of austerity is not prosperity but luxe et volupté. We have substituted endless commerce for public purpose, and expect no higher aspirations from our leaders. Sixty years after Churchill could offer only “blood, toil, tears and sweat,” our very own war president—notwithstanding the hyperventilated moralism of his rhetoric—could think of nothing more to ask of us in the wake of September 11, 2001, than to continue shopping. This impoverished view of community—the “togetherness” of consumption—is all we deserve from those who now govern us. If we want better rulers, we must learn to ask more from them and less for ourselves. A little austerity might be in order.

sabato 4 febbraio 2012

la politica dell'accetta

la politica dell'accetta è sempre ben accetta in un paese di cojoni come il nostro.
 Abbiamo avuto anni di tagli orizzontali, tagli da decespugliatore. Portavano via tutto, fiori e gramigna, facendo terra bruciata. Hanno ripulito i fossi fino all'ultimo tarassaco spuntato di nascosto... Solo prato all'inglese per i detentori del potere, quelli da noi eletti intendiamoci, il resto via.
Così tagli alla scuola dal nido all'università, senza senso, senza merito e senza risultati. Anzi con pessimi risultati: scuole senza insegnanti e imbottite di alunni, scuole senza aule, senza materiali e supporti didattici ma imbottite di autonomia.
Hanno salassato il sociale spostando i soldi sul lavoro ed il lavoro sulla formazione e la formazione sulla cassa integrazione e la cassa integrazione sulla mobilità e il tutto a carico della previdenza. Risultato? Non ci sono i soldi per la mia pensione perchè li hanno gia usati per pagare delle persone da licenziare, lasciate a marcire per anni in CIGS o CIGO.
E la sanità? Invece di decidere cosa curare, chi curare e chi deve pagare e chi no, hanno deciso di far pagare tutti: chi ha bisogno e chi no, chi può e chi no.
I disabili? Regaliamoli alla comunità sarà contenta, tornerà ad essere solidale e accogliente. Tradotto: famiglie arrangiatevi!
Il paesaggio? Chi se ne frega! Siamo il paese più bello del modo se cade un muro ce ne sono migliaia che crollano in piedi, ovunque. Meglio fare mostre stramilionarie in posti strafalsi.
e poi? I treni: via quegli inutili carrozoni che portano i lavoratori, gli studenti, i turisti... Solo meravigliosi carissimi treni veloci: milano-roma e poco più... Viva l'asse Padano/romano! Devi arrivare a budoia, san giorgio di nogaro, spoleto? Cazzi tuoi prendi la macchina e consuma.

Viva l'accetta e chi l'accetta

io no, e forse da qualche mese anche qualcun altro..

venerdì 3 febbraio 2012

la cattiva strada...

Il compenso di Celentano a Emergency e famiglie bisognose - Repubblica.it

che Celentano meriti o meno 750.000 € per il suo lavoro è irrilevante.
Che Sanremo guadagni tanto da potersi permettere un cachè di 750.000€ è auspicabile.
Che Sanremo sia un programma utile, interessante, o semplicemente bello è un'ipotesi.
Ma che Celentano versi malamente almeno una parte del suo compenso è certo.

Gli Italiani famosi si accompagnano ad altri noti Italiani, e Strada è un Italiano arcinoto all'estero, come in Italia. É talmente noto da essersi meritato la dedica di questa frase da Lutwack
Se hai Hitler di fronte a te, il pacifismo coopera con Hitler. Se hai uno Stalin, Stalin adorava i pacifisti, perché non resistevano. I Talebani adorano i pacifisti, perché non resistono. Questa è la realtà. Siamo in questo mondo.”
Strada riceverà, secondo l'elemosina celentiana, un paio di centomila €. Per i suoi ospedali. Quelli che curano tutti ma curano con più piacere i terroristi, i talebali, i lealisti libici e tanti altri. Anche la croce rossa cura tutti, anche la mezzaluna rossa, anche medici senza frontiere, anche... ma Strada li cura meglio e se qualcuno osa dire che magari, dopo averli curati,certi ceffi sarebbe meglio lasciarli alla giustizia, viene accusato di lesa maestà... di guerrafondaio. Perchè i pacifisti (quelli come strada) non guardano in faccia nessuno. Per esempio in Afganistan si trovano benissimo nelle zone talebane perchè metà della popolazione non possono guardarla in faccia perchè coperta dal Burqa e l'altra metà è meglio non chiedergli troppo di mostrare la faccia se non si vuol finire sparati. Ma tutto questo per Strada è pacifismo, è anti imperialismo.
Avete notato come sempre più le teste d'uovo che capiscono la gente siano sempre più vicini alla lega-pensiero (so che è un ardito sforzo intellettuale parlare di lega-pensiero) o Berlusca pensiero. Grillo pensa come Borghezio, Strada come Berlusconi (almeno sulla Libia e non mi par poco) e Celentano? Regala soldi ai sindaci eretici (più o meno): tosi, alemanno, de magistris, emiliano, zedda, renzi, pisapia.
Regala soldi... come berlusconi che faceva beneficenza alle povere immigrate marocchine, pardon egiziane e dalle parentele altolocate.