Pubblicato su Ippogrifo 6- Inverno 2011
Premessa
Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga,mediante tutta la
forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo
della quale ognuno, unendosi a tutti non ubbedisca tuttavia che a se
stesso e rimanga libero come prima
Jean-Jaques
Rousseau, Il contratto sociale, 1762
Il
mondo, sempre più piccolo e allo stesso tempo sempre più
parcellizzato, sembra essere alla disperata ricerca di un nuovo
contratto sociale, per legare insieme i fili delle relazioni
comunitarie.
La
democrazia e la dittatura sono oggi concetti fluidi a volte persino
opinabili, se accade che i dittatori vengano lodati come democratici
e i democratici vengano trattati come tiranni. Le rivoluzioni sono un
accadimento, come lo sono le elezioni, spostano potere, legittimano e
delegittimano allo stesso tempo i legami
civili, trasformano
e distruggono il prima e non assicurano il dopo. La politica,
soprattutto in questo tardo '900 e inizio nuovo millennio, è priva
di grandi visioni prospettiche, attanagliata da sistemi economici
inefficienti e prepotenti, tensioni nazionaliste, ortodossie
religiose e approcci da Stato etico.
La
primavera araba,
così come lo furono le rivoluzioni
colorate degli stati ex
sovietici, è oggi l'emblema di un profondo ripensamento del metodo
rivoluzionario.
Prima
di legarsi bisogna perciò sciogliere alcuni nodi.
Il nodo slegato
Alessandro
si fece condurre al cospetto del nodo, provò forse a tentarne la
corda; o forse aveva già deliberato la sua soluzione: sguainò la
spada, e recise a mezzo il nodo. Aveva ventitré anni , non aveva
tempo da perdere, l'Asia sarebbe stata sua.
Adriano
Sofri, Il nodo e il chiodo, 1995
Il
legame è ciò che
serve a legare, è esso
stesso il nodo che unisce.
Il
legame ha due terminali, un inizio e una fine, un in
mezzo.
In
mezzo c'è un filo
costituito da un intreccio di materia sociale, politica, economica.
Il legame ha come antidoto la slegatura e il taglio.
Il
nodo si taglia o si slega? La dicotomia recisione/scioglimento è
corrispondente a violenza/non violenza, guerra/pace,
sbagliato/giusto?
Pensare
in questo modo la struttura del legame, e la sua risoluzione, porta
dunque a dare un'accezione etica, diversa da un approccio pragmatico
in cui è la sostenibilità delle relazioni a chiarire la dinamica
della violenza e della non violenza nei processi politici.
La
(in)sostenibilità dei legami politici, e la loro funzionalità
materiale, è data dalla pazienza
che vogliamo
o possiamo investire
per risolverli.
La
politica è: uomini, mezzi e fini, per dirlo in tre parole. Ovvero,
aggiornandola ad oggi, cittadini, legami, sostenibilità.
Proprio
perché la politica è costituita da una moltitudine di connessioni
che sono indipendenti dalla forma di governo, la realizzazione dei
fini della polis
o, se vogliamo usare termini oggi più in voga, della comunità, non
dipendono dalla forma di governo quanto dalla capacità di governare
la sostenibilità stessa delle relazioni.
Dittatura vs democrazia
Se
la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità
quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere
totalitario
Hannah
Arendt, Le
origini del totalitarismo,
1951.
La
dittatura è una struttura di relazioni di grandissima efficienza.
Ogni più lontano terminale comunitario (associazione, sezione di
partito, circolo ricreativo, luogo di culto, luogo di lavoro o di
svago) è strettamente legato al potere. Anzi, ne costituisce,
consciamente o meno, il sistema immunitario.
Il
legame comunitario all'interno di una dittatura non ammette libertà
e sistematicamente usa la violenza come medium,
come collante che, nella sua applicazione quotidiana, diventa
sinonimo di terrore.
Uno
Stato totalitario, etico e necessariamente sociale, individua un
nemico, una diversità, e, attraverso il processo del consenso e
dell'immedesimazione di massa, instaura legami omologanti che tendono
ad escludere le eccezioni che diventano il pericolo identitario, il
potenziale distruttore dei legami politici del regime.
La
comunità diventa massa, Popolo e dunque Stato, perdendo ogni
interesse a legami sociali diversi da quelli finalizzati al bene
comune
dogmatico. Così l'amore è funzionale allo Famiglia, l'educazione
alla Cultura, il lavoro al Progresso, la religione alla Chiesa, la
società alla Patria, il diritto alla Verità, il territorio alla
Guerra. Il cittadino infine è funzionale allo Stato e non il
contrario.
L'esempio perfetto
Lo
statalismo è la forma superiore che assumono la violenza e l'azione
diretta trasformate in norma. Attraverso e per mezzo dello Stato,
macchina anonima, le masse agiscono autonomamente.
La
ribellione delle masse, Josè
Ortega Y Gasset
I
regimi dittatoriali trasformano il legame sociale, in funzione del
potere carismatico, in comando, ordine e infine in asettica
direttiva, circolare, decreto.
L'ordine,
che costituisce il legame stesso ed è sempre banalmente violento è
distribuito burocraticamente fra l'intera popolazione in una
efficacissima riduzione ad inezia di ogni piccola azione.
La
deresponsabilizzazione in una catena di comando lunga, complessa e
ritualizzata attribuisce direttamente alla Volontà del Popolo,
incarnata dal dittatore stesso, la responsabilità. Questo secondo
passaggio autorizza tutti ad essere sollevati dalla responsabilità
personale, individuale, in nome della più ampia e condivisa
Gleichschaltung
(sincronizzazione,
coordinamento), così
come la chiamavano i nazisti.
Verrebbe da dire che i
legami,
così concepiti, sono sempre politici
e sempre violenti e che ognuno ha
fatto solo quello che gli è stato ordinato di fare.
Libertà è violenza: un ossimoro?
L'ottimista
proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il pessimista
teme che sia vero
James
Branch Cabell,
The
Silver Stallion,
1926
La
domanda è: come liberarsi della violenza intrinseca nei legami
politici (dei regimi)?
Una
qualsiasi prospettiva non-violenta della transizione dei regimi da
dittatoriali a democratici sconta il dogma: la violenza
chiama violenza.
Bisogna
allora intendersi sui termini violenza
e non-violenza.
Affrontare il problema dal punto di vista teorico, dimenticando che
la politica è soprattutto prassi comunitaria e non solo etica e
morale, porta ad allontanarsi dall'essenza di ciò che più
correttamente dovremmo chiamare semplicemente Politica.
Bisogna
ripartire dal legame
e dalla sua funzione di
struttura portante dell'azione politica, insomma ritrovare la
democrazia (rappresentativa).
La
democrazia funziona su connessioni deboli,
continuamente e volontariamente modificabili. É la sua forza e si
chiama contratto sociale
ed è condiviso attraverso le leggi, le rappresentanze e sopratutto
la delega.
Le
elezioni slegano i cittadini da ogni subalternità con il proprio
rappresentante, gli elettori non perdono responsabilità ma la
delegano. Non è un ideale bene
comune a rappresentare la
comunità, la polis,
ma è l'eletto fino al momento in cui smette di essere votato. Almeno
così dovrebbe essere.
Il
regime democratico trasferisce porzioni di potere secondo criteri
condivisi, le elezioni, e resiste fino a che tutti possono sperare di
esercitare, a tempo determinato, il potere.
Per
questo la democrazia è sostenibile, contrariamente alla dittatura.
Perché i suoi legami non sono fondati sull'imposizione, sulla
sudditanza, sulla convenienza e sulla sopravvivenza, ma si basano
sulla mutabilità, sulla contrattazione, sulla condivisione e il
riconoscimento del bene comune.
La
democrazia sopravvive agli uomini che la rappresentano, la dittatura
assai difficilmente può vantare la stessa longevità.
Rivoluzioni e conservazioni
Il
colpo di stato, invece, è politicamente neutro, e non esiste alcuna
presunzione che, dopo la conquista del potere, si seguirà una
particolare politica.
Strategia
del colpo di stato, Edward Luttwak ,1972
Quali
sono le armi per modificare, sciogliere e recidere i fili che legano
il potere alla repressione? Dove sono i terminali delle connessioni?
Un organismo complesso come uno Stato può permettersi di perdere
legami senza morire?
Vale
la pena dissanguare, e non solo metaforicamente, uno Stato per
ricostruire da zero i legami comunitari, per riscrivere un nuovo
contratto sociale?
Dunque
la Libertà è necessariamente violenza?
Cosa
succede in un paese quando le forze in campo decidono di cambiare le
regole, ovvero di cambiare regime, cosa succede quando dalla
dittatura si vuol passare alla democrazia?
La
conservazione del potere è la caratteristica principale dei regimi
totalitari. Finché il legame politico non viene modificato,
controllato e addomesticato il potere non si sposta.
Sciogliere
le connessioni con il passato (regime) è sempre una
rivoluzione ed è sempre e comunque tranciante, modificante e
un
cambio di potere non certifica che il risultato sia buono
o cattivo.
Le
rivoluzioni possono cadere dall'alto, imponendo un nuovo potere,
o
possono nascere dal basso, rimontando e ricostituendo la struttura
politica. Questa schematizzazione semplicistica ha avuto nella realtà
storica molteplici variabili, più o meno elitarie, più o meno
popolari o militari. É una questione di potere, una traslazione di
potere da un gruppo ad un altro, da una persona ad un'altra, da una
classe ad un'altra: rivoluzione,
pronunciamiento, putsch, guerra di liberazione, insurrezione,
rivoluzione, la
sostanza non cambia.
Una
tabula
rasa su
cui riscrivere i nuovi contratti comunque dev'essere preparata.
La non-violenza è un metodo
La
guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La
guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero
strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una
sua continuazione con altri mezzi.
Karl
von Clausewitz, Della Guerra, 1834
La
non-violenza è un metodo, prima ancora di una filosofia, e come tale
ha bisogno di studio, applicazione e disciplina. Esattamente come la
guerra.
Non
vi sono metodi immorali, ma azioni e politiche immorali si.
Dunque
è evidente che non si può imputare al metodo il risultato, come non
si può accusare i mezzi dei fini perseguiti.
Il
'900 ci ha raccontato che proprio a causa delle migliori
intenzioni si sono perpetrate le peggiori nefandezze, ci ha
raccontato che la guerra è un metodo efficace ma
terribilmente costoso, anche in termini di legami sociali lacerati e
mai ricostruibili.
Perché
allora scegliere un metodo chiamato non-violenza?
Perché
i metodi di Gandhi, Martin Luther King, Lech Walesa, Gene Sharp e dei
nostri Danilo Dolci e Aldo Capitini sarebbero più efficaci di quelli
di Charles De Gaulle, Malcom X, o dei nostri Giuseppe Garibaldi o
Sandro Pertini?
Le
azioni di tutti loro sono state modificanti, distruttive e
rivoluzionarie. Quando parliamo di cambio di stato dello Stato
presupponiamo che la non-violenza non sia pacifismo così come la
guerra non sia bellicismo.
La
non-violenza è logorare, la guerra è tagliare. La prima usa la
pazienza al fine di
sciogliere il nodo scorsoio da cui intende liberarsi. Un gioco
pericoloso perché come tutti sanno i nodi più tiri più si
stringono.
La
guerra, d'altra parte, tende ad usare un'ascia per tagliare un filo
da pesca...
Azione politica, una questione di strumenti e parole
L'azione
non violenta è una tecnica per condurre conflitti, al pari della
guerra, del governo parlamentare, della guerriglia. Questa tecnica
usa metodi psicologici, sociali, economici e politici. Essa, è stata
usata per obiettivi vari, sia "buoni" che "cattivi";
sia per provocare il cambiamento dei governi sia per supportare i
governi in carica contro attacchi esterni. Il suo utilizzo è
unicamente responsabilità e prerogativa delle persone che decidono
di utilizzarlo
Gene
Sharp, CORRECTIONS, An open letter from Gene Sharp, 2007
Chi
usa la parola non-violenza sa di fare in Italia un'operazione che
assorbe i concetti, i retaggi culturali e sopratutto dimostra una
profonda ed inequivocabile vena elitaria.
Il
nostro Paese non è un Paese per non-violenti, forse perché non è
uno Stato compiutamente democratico, ne definitivamente
dittatoriale. La non-violenza ha bisogno di chiarezza, puntualità e
pazienza, doti che forse oggi (?) non siamo in grado di esprimere.
Per
aggirare l'ostacolo dovremmo avere il coraggio di parlare più
prosaicamente di azione politica o ancora meglio, come fa Gene Sharp,
di political defiance, ovvero
dimenticare le ragioni filosofiche e concentrarci su quelle pratiche.
La
parola defiance è
talmente ricca da essere essa stessa un manuale di azione politica
non-violenta: resistenza, opposizione, non complicità,
disobbedienza, insubordinazione, dissenso, renitenza, sovversione,
ribellione; oltraggio, disattenzione, rifiuto, insolenza.
Proprio
l'azione politica va a sciogliere quei legami insostenibili, perversi
e immobili che costituiscono la trama di un regime.
Ogni
parola diviene strumento applicativo e non mera manifestazione
d'intenti, ed è in questo che la (non-violenta) azione politica
riesce ad essere assai più efficace della (violenta) azione
politica.
Per
tagliare la trama del regime si deve costituire una nuova rete di
legami solidi, e al contempo elastici, in grado di sostenere durante
la lotta i cittadini e allo stesso tempo preparare un nuovo tessuto
sociale e un nuovo contratto democratico.
Gli
strumenti sono fondamentali per legare i cittadini. Come la prima
guerra mondiale ha costituito il primo vero terrificante banco di
prova delle masse e dei regimi totalitari, l'89 ha messo alla prova
gli individui democratici e continua, in un fenomeno di lunga durata,
a sollecitare l'applicazione di metodi di disobbedienza
civile.
Come fare azione
politica, sapere che esistono
metodi, tecniche, manuali è rassicurante per chi, come sempre più
spesso oggi pare accadere, ha desiderio di diventare nuovamente
azionista
del proprio futuro e della propria comunità. Per chi voglia tornare
a riprendersi la delega politica, troppo spesso considerata in
bianco.
Le primavere arabe, così come le
rivoluzioni colorate (le uniche che anagraficamente posso ricordare)
hanno dimostrato che nulla è inscalfibile, nemmeno piazza Tienanmen.
Bibliografia sragionata.
L'uomo
libero conferisce alle armi il loro significato
Trattato
del Ribelle, Ernst Jünger
Jean-Jaques
Rousseau, Il contratto Sociale, Milano 2010
Karl
von Klausewitz, Della Guerra, Milano 1970
Amartya
Sen, La ricchezza e la ragione, Bologna 2000
Amartya
Sen, Globalizzazione e libertà, Milano 2002
William
Volmann, Come un'onda che sale e che scende, Milano 2007
Adriano
Sofri, Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, Palermo 1995
José
Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, Milano 2001
Curzio
Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Milano 2002
Gene
Sharp, Come abbattere un regime Manuale di liberazione
nonviolenta,Milano 2011
Ernst
Jünger,
Trattato del ribelle, Milano 1990
Gene
Sharp, Politica dell'azione nonviolenta voll. I-II-III, Torino 1985
M.K.
Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Torino 1996
Edward
Luttwack, Strategia del colpo di stato. Manuale pratico, Milano 1983
Henry
David Thoreau, La disobbedienza civile, Milano 1992
Jean
Marie Muller, Manuale di azione nonviolenta per la Lega Nord, Venezia
1993
Morjane
Baba, Guerrilla Kit, Milano 2005
Alberto
Martinelli e Alessando Cavalli a cura di, Il black panther party,
Torino 1974
Ian
Kershaw, L'enigma del Consenso, Bari 2007
Hannah
Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino 2009