Pubblicato su Ippogrifo 6, inverno 2011
Camminare,
una rivoluzione
Labbucci
Adriano
Donzelli,
Collana Saggine
2011
Pagine
100,
EAN
9788860366283
Dovrei
scrivere queste note camminando, o almeno pensarle, spostandomi da un
luogo ad un altro. Avrei dovuto leggere Camminare,
una rivoluzione
deambulando e non seduto in poltrona come ho fatto.
La
prima domanda è: Camminare è spostarsi da A a B, raggiungere una
meta, arrivare ad un(a) fine? O camminare è indeterminato, è senza
tempo, senza motivo, senza distanza?
Camminare
è contemporaneamente mezzo e fine, attraverso e meta, in cui è
predominante la dimensione del piacere e della curiosità come fine
in sé, non strumento per qualche altra cosa. (p.18)
In
questo è rivoluzionario, pretende di cambiare non solo la realtà ma
anche l'immaginazione, i camminatori, racconta Labbucci, non contano
i passi, ma contano i luoghi, archiviano emozioni e non battiti del
cuore.
Chi
cammina lo fa comodamente, è leggero ma non nudo, è costante ma non
inflessibile, si ferma quando vuole e riprende con la stessa noncuranza, è irrequieto
ma non inquieto.
Andare
a passeggio è una cosa che i bambini sanno fare, a modo loro,
curiosi, attivi, ricettivi, trasformano ogni attività in un gioco
segreto di cui raramente cogliamo le regole (conta i passi, stacca le
gomme, scalcia i sassi, scrosta i muri, cammina sui bordi). Per loro,
come per noi inconsapevolmente:
Camminare
è libertà. Libertà è autonomia. Autonomia è rischio. Camminare è
rischioso (p.63)
Oggi
non passeggiamo più, non corriamo pericolo. Andiamo sempre da
qualche parte a fare qualche cosa: comprare, lavorare, bere,
mangiare, apprendere, curarsi. Non passeggiamo più, e non stiamo
neanche più fermi.
Se
passeggi sei un anormale: devi camminare in
montagna,
devi fare trekking,
o
fare un pellegrinaggio
devozionale, camminare
è troppo poco e, soprattutto, non produce nulla.
Se
si è umili si cammina, con Dio o senza Dio; se si è superbi non si
cammina si striscia.
L'umiltà
è l'anima del camminare
Ricordo
da ragazzo le infinite passeggiate circolari, una sorta di pratica
sufi rallentata, un deambulare frenetico, a passi lenti e spavaldi,
attento alle facce, ai vestiti, ai corpi dell'altro. Accadeva di
scoprire angoli, altezze e vie di fuga inaspettate. La città, la
piccola città della mia adolescenza, era il luogo della wilderness
urbana inconsapevole.
Passeggiare
permette questo: l'osservazione distratta.
Permette
di vedere, guardare, osservare o studiare a seconda della curiosità,
della casualità. Nel camminare non c'è nulla di trascendente, non
si aspira ad una vetta ne si rischia di cadere in un baratro.
Solo
camminare ci fa ritrovare,
ci permette di passare decine di volte per la stessa strada e vederla
sempre nuova: luminosa, oscura, fredda, calda, profumata o
pestilenziale. Ogni particolare può cambiare, come naturalisti
osserviamo le incrostazioni dei muri allo stesso modo dello sbocciare
dei fiori. Labbucci ci racconta dei molti flâneur,
dell'arte di andare a passeggio per le strade come se si fosse in
collina fra filari di cipressi. Oggi che è tutto telecamere e
sicurezza, che senso ha passeggiare in città? Oggi che persino le
campagne sono ciclovie,
ippovie,
sentieri letterari, oggi
che le piazze sono o parchi
a tema aperitivo,
o sono deserte senza bar e negozi, oggi che le piazze sono quelle dei
centri commerciali con tanto di bancarelle e giocolieri che senso ha
passeggiare?
Solo
camminando si può scoprire quante persone e quante porte possono
ancora aprirsi sull'onda di un «Buongiorno»
e portando con sé il sorriso migliore, quante riserve di umanità e
gentilezza si possono ancora trovare se si esce e si riesce a
parlare. (p.144)
Camminare,
una rivoluzione
rende omaggio a Bruce Chatwin, al suo nomadismo intellettuale, ci
ricorda che camminare ci permette di passare
sulla terra leggeri,
di incidere sulla storia con la nostra vita, con la nostra singola
diversità, di transitare dalla normalità,
sempre banale, alla alterità,
sempre
unica e pericolosa.
È
una verità storica che nei regimi dittatoriali il movimento, in ogni
sua forma, è guardato con sospetto, elemento di disturbo da tenere a
freno poiché rompe l'ordine imposto. (p.48)
Camminare
è politico, è comunità. Si cammina da soli, sempre, perchè
camminare è anarchico , è individualista, è democratico.
Le
dittature marciano, fanno adunate, schierano masse e non individui.
Per muoversi, nelle dittature, servono timbri, documenti,
autorizzazioni, motivi validi. Non ci si muove da soli ma in modo
coatto, prestabilito o accompagnati.
Camminare
permette di pensare, di parlare e di stare zitti. Di riposare e di
fermarsi, di stancarsi e di rinfrancarsi.
La
politica dovrebbe essere la stessa cosa: pensare, parlare,
rinfrancarsi, fermarsi a riposare. Far riposare la comunità, farla
godere di ciò che il pensiero e la parola hanno trasformato in
politica e la politica in azione e Labbucci ci ricorda che si può,
ancora, fare.
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