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lunedì 13 febbraio 2012

Camminare, una rivoluzione- Recensione Ippogrifo


Pubblicato su Ippogrifo 6, inverno 2011

Camminare, una rivoluzione
Labbucci Adriano
Donzelli, Collana Saggine
2011
Pagine 100,
EAN 9788860366283


Dovrei scrivere queste note camminando, o almeno pensarle, spostandomi da un luogo ad un altro. Avrei dovuto leggere Camminare, una rivoluzione deambulando e non seduto in poltrona come ho fatto.
La prima domanda è: Camminare è spostarsi da A a B, raggiungere una meta, arrivare ad un(a) fine? O camminare è indeterminato, è senza tempo, senza motivo, senza distanza?
Camminare è contemporaneamente mezzo e fine, attraverso e meta, in cui è predominante la dimensione del piacere e della curiosità come fine in sé, non strumento per qualche altra cosa. (p.18)
In questo è rivoluzionario, pretende di cambiare non solo la realtà ma anche l'immaginazione, i camminatori, racconta Labbucci, non contano i passi, ma contano i luoghi, archiviano emozioni e non battiti del cuore.
Chi cammina lo fa comodamente, è leggero ma non nudo, è costante ma non inflessibile, si ferma quando vuole e riprende con la stessa noncuranza, è irrequieto ma non inquieto.
Andare a passeggio è una cosa che i bambini sanno fare, a modo loro, curiosi, attivi, ricettivi, trasformano ogni attività in un gioco segreto di cui raramente cogliamo le regole (conta i passi, stacca le gomme, scalcia i sassi, scrosta i muri, cammina sui bordi). Per loro, come per noi inconsapevolmente:
Camminare è libertà. Libertà è autonomia. Autonomia è rischio. Camminare è rischioso (p.63)
Oggi non passeggiamo più, non corriamo pericolo. Andiamo sempre da qualche parte a fare qualche cosa: comprare, lavorare, bere, mangiare, apprendere, curarsi. Non passeggiamo più, e non stiamo neanche più fermi.
Se passeggi sei un anormale: devi camminare in montagna, devi fare trekking, o fare un pellegrinaggio devozionale, camminare è troppo poco e, soprattutto, non produce nulla.
Se si è umili si cammina, con Dio o senza Dio; se si è superbi non si cammina si striscia.
L'umiltà è l'anima del camminare
Ricordo da ragazzo le infinite passeggiate circolari, una sorta di pratica sufi rallentata, un deambulare frenetico, a passi lenti e spavaldi, attento alle facce, ai vestiti, ai corpi dell'altro. Accadeva di scoprire angoli, altezze e vie di fuga inaspettate. La città, la piccola città della mia adolescenza, era il luogo della wilderness urbana inconsapevole.
Passeggiare permette questo: l'osservazione distratta.
Permette di vedere, guardare, osservare o studiare a seconda della curiosità, della casualità. Nel camminare non c'è nulla di trascendente, non si aspira ad una vetta ne si rischia di cadere in un baratro.
Solo camminare ci fa ritrovare, ci permette di passare decine di volte per la stessa strada e vederla sempre nuova: luminosa, oscura, fredda, calda, profumata o pestilenziale. Ogni particolare può cambiare, come naturalisti osserviamo le incrostazioni dei muri allo stesso modo dello sbocciare dei fiori. Labbucci ci racconta dei molti flâneur, dell'arte di andare a passeggio per le strade come se si fosse in collina fra filari di cipressi. Oggi che è tutto telecamere e sicurezza, che senso ha passeggiare in città? Oggi che persino le campagne sono ciclovie, ippovie, sentieri letterari, oggi che le piazze sono o parchi a tema aperitivo, o sono deserte senza bar e negozi, oggi che le piazze sono quelle dei centri commerciali con tanto di bancarelle e giocolieri che senso ha passeggiare?
Solo camminando si può scoprire quante persone e quante porte possono ancora aprirsi sull'onda di un «Buongiorno» e portando con sé il sorriso migliore, quante riserve di umanità e gentilezza si possono ancora trovare se si esce e si riesce a parlare. (p.144)
Camminare, una rivoluzione rende omaggio a Bruce Chatwin, al suo nomadismo intellettuale, ci ricorda che camminare ci permette di passare sulla terra leggeri, di incidere sulla storia con la nostra vita, con la nostra singola diversità, di transitare dalla normalità, sempre banale, alla alterità, sempre unica e pericolosa.
È una verità storica che nei regimi dittatoriali il movimento, in ogni sua forma, è guardato con sospetto, elemento di disturbo da tenere a freno poiché rompe l'ordine imposto. (p.48)
Camminare è politico, è comunità. Si cammina da soli, sempre, perchè camminare è anarchico , è individualista, è democratico.
Le dittature marciano, fanno adunate, schierano masse e non individui. Per muoversi, nelle dittature, servono timbri, documenti, autorizzazioni, motivi validi. Non ci si muove da soli ma in modo coatto, prestabilito o accompagnati.
Camminare permette di pensare, di parlare e di stare zitti. Di riposare e di fermarsi, di stancarsi e di rinfrancarsi.
La politica dovrebbe essere la stessa cosa: pensare, parlare, rinfrancarsi, fermarsi a riposare. Far riposare la comunità, farla godere di ciò che il pensiero e la parola hanno trasformato in politica e la politica in azione e Labbucci ci ricorda che si può, ancora, fare.

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