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sabato 18 dicembre 2010

Non è un paese per vecchi...

IPPOGRIFO 03 - NON È UN PAESE PER VECCHI?

Editoriale
Interrompiamo il dialogo

A cura di Andrea Satta e Laura Lionetti

Pordenone, domenica 1 aprile 2035
È notizia di questi giorni: in un piccolo Comune, in un quartiere periferico, i residenti hanno deciso di chiudere alcuni luoghi comunitari. Lo hanno fatto contro la volontà delle istituzioni, ma con il favore della popolazione.
Una scelta contro corrente, coraggiosa, frutto di un lungo percorso semiclandestino, un faticoso lavoro di alcuni cittadini, che oserei chiamare illuminati.

Una scelta che, come un fiume carsico, scompare e ricompare nel panorama italiano, un fiume la cui portata rivoluzionaria ancora non conosciamo. La situazione era diventata insostenibile da molto tempo, giovani e vecchi vivono gli stessi luoghi, gli stessi tempi, senza distinzioni, in un caotico e magmatico non luogo intergenerazionale.
È questa parola che da anni condiziona le scelte dei nostri amministratori in materia di lavoro sociale, di welfare, di comunità. Intergenerazionale è divenuto ormai il paradigma imprescindibile dell’agire quotidiano, nulla può essere fatto senza che questa diventi una condicio sine qua non.
Ogni iniziativa ha l’obbligo morale, prima ancora che normativo, di includere in termini intergenerazionali tutti i cittadini. Il dialogo fra generazioni è ormai prassi consolidata da decenni e nessuno pare oggi in grado di proporre alternative al modello vigente.
È giusto? Cosa significa realmente intergenerazionale?

Alcuni mesi fa ho visitato, accompagnato da un solerte amministratore, uno di questi luoghi e ne sono rimasto profondamente colpito.
Il mio cicerone mi ha spiegato come giovani, bambini e anziani lì giocassero insieme, che le associazioni, con la sede nella struttura e nate per volontà di alcuni abitanti del quartiere, fossero rigorosamente senza distinzione di età, e che queste ogni anno organizzassero feste, incontri, manifestazioni di solidarietà tutti insieme sempre.
Nell’ampio locale un gruppetto di ragazzi giocava a calcetto con i propri nonni e alcune ragazze discutevano, costruendo delle strane palle di stoffa, con delle vetuste signore.
Il calendario dello spazio comunitario prevedeva un inquietante incontro dibattito dal tema “Nuovi Social network: sono diventati classisti?”. Mi son fermato parlare con Gina, così si chiamava una ragazza fra le più impegnate, sconvolta dalla proliferazione di gruppi chiusi di giovani, che mi ha raccontato come sia sempre più facile trovare luoghi e situazioni di vero e proprio apartheid generazionale.
Ha usato questo vecchio termine che da anni non sentivo: apartheid. Ha continuato sempre più infervorata: «I vecchi si trovano fra di loro ed escludono i giovani e viceversa, lo scriva del pericolo che stiamo correndo!».
Raccontava di aver avuto un contatto con una piccola associazione informale di giovani e di aver cercato di coinvolgerli in un processo di comunitario. La risposta era stata secca e violenta: «Noi con i vecchi non ci vogliamo stare!».

Il sintomo di una profonda crisi del modello sociale, che negli ultimi vent’anni ha portato a condividere spazi, fondere iniziative e desideri, ad omologare aspettative, a scambiarsi esperienze, a vivere le stesse emozioni, è sempre più evidente soprattutto nei luoghi informali della rete e, lentamente ma inesorabilmente, nei luoghi del vivere quotidiano.
Gruppi di discussione, vilipesi e osteggiati dalle istituzioni, dagli educatori, dai politici, dagli intellettuali, propagandano, in modo sempre meno clandestino, la divisione, il ritorno agli scontri generazionali, ad un mondo in cui vecchi erano vecchi e i giovani giovani.
Quest’indiscussa mescolanza di età, l’approccio universalistico, intergenerazionale, omologante inizia oggi a mostrare la corda. Gli anziani, così come i giovani, non sanno più riconoscersi in un modello di riferimento proprio, identitario. Io stesso, che ho vissuto integralmente la mia vita lavorativa in questo contesto, ho oggi difficoltà a riconoscermi in una mia generazione. Si vive il tempo biologico senza soluzione di continuità, si è annullata in via definitiva l’età di mezzo, culturalmente indecente, una sorta di medioevo oscuro e indefinito stretto fra un’eterna giovinezza ed una giovanile anzianità. La domanda da porsi ora è: dove sono finiti gli adulti? A forza di parlare e dialogare fra giovani e anziani, fra meno giovani e meno anziani, abbiamo annullato ciò che Dante proponeva come «nel mezzo del cammin di nostra vita». Siamo sempre e comunque giovani, almeno fino alla morte.
Le classi di età tendono a sparire, rimangono come residuato concettuale arcaico, legato a riti di passaggio che la nostra società tende a rimuovere, o peggio, a slegare dal concetto di età.
La formazione, la stessa educazione, è ormai un concetto senza età, la scuola è infinita, l’apprendimento è continuo, lungo tutta la vita. Il lavoro è senza inizio e senza fine certa, il lunghissimo processo di deprecarizzazione, che fu avviato all’inizio della seconda decade del 2000, ha portato oggi a non essere più in grado di definire come e quando la nostra vita lavorativa si svolgerà. La famiglia, la procreazione, la cura dei figli è decontestualizzata, affidata a luoghi perfetti in cui il bambino impari il rapporto continuo e costruttivo con le altre età, in cui i conflitti generazionali siano appianati, risolti sul nascere, inibiti.
Chi si discosta da questo, chi cerca un’identità mutevole con il tempo, un’identità che cambia con il cambiare delle stagioni della vita, è considerato eretico, malato, asociale, svantaggiato, disagiato, a seconda di chi questi giudizi li esprime e di come lo fa.
La nostra società non ha più, da molti anni, scontri sociali, non ha più violenza giovanile e intemperanze senili, la nostra società è placidamente votata al dialogo senza aver più nulla di cui discutere e nulla da trasmettere.

Almeno fino ad oggi. (AS)


Nel 2008 la rivista Ippogrifo con il sostegno della Provincia di Pordenone e in collaborazione con l’Ass6, il Comune di Pordenone, le cooperative sociali Acli, Fai, Itaca, il liceo “Leopardi-Majorana”, hanno organizzato i seminari trasversali sul tema “La realtà e le prospettive del lavoro in rete”, rivolti a chi opera nella scuola, nei campi della salute e dell’assistenza, nella progettazione e amministrazione pubblica, conclusosi poi con un convegno e la pubblicazione di un numero di questa rivista.
I seminari hanno avuto la particolarità di far lavorare assieme persone che solitamente operano in servizi diversi (scuola, anziani, salute mentale, ecc.). In quell’occasione ci si è confrontati sulla questione della leadership e della crisi della leadership nelle istituzioni, sulla vaghezza del concetto di rete e la necessità di individuare dei dispositivi con cui calare nell’operatività quotidiana le idee di fondo.
Ci eravamo lasciati con la proposta di mettere in atto un dispositivo trasversale, a partire da una leadership più presente, che responsabilizzasse, monitorandone poi gli sviluppi, alcuni gruppi di operatori chiamati ad avviare percorsi di lettura del bisogno e di risposta alla domanda, che abbiamo chiamato “operatori di collegamento”.
Come siamo arrivati alla questione dell’inter-generazionalità?
Ci siamo arrivati attraverso l’incontro di pensieri, attraverso il fatto che i Piani di Zona tacciono, focalizzando infine quell’area dove forse è più visibile la difficoltà dell’incontro e quindi del collegamento; quell’area che rappresenta il dialogo fra le generazioni.
Sappiamo tutti che in realtà il discorso è molto più complesso. Viviamo in sistemi chiusi (servizi, generazioni, abitazioni, individui), sistemi che convivono numerosi e i cui codici non entrano mai in comunicazione e non si capiscono.
Ma ci deve pur essere una strada verso il cambiamento, almeno un sentiero verso il tentativo di un cambiamento… La riflessione si è approfondita nelle tre giornate di eventi, convegni, iniziative, film “Non è un paese per vecchi? Il dialogo (interrotto) tra le generazioni”, realizzate a Pordenone a gennaio 2010, da cui sono stati tratti alcuni degli articoli presenti in questo numero.
Allora, riprendendo le parole di Pier Giulio Branca, visto che non è un paese per vecchi, ma forse nemmeno per giovani, né per nessuno, una strada possibile è il ripensare la comunità, non solo come il contesto per gli interventi individuali o collettivi, né solo come una risorsa, ma anche come il soggetto e l’oggetto dell’intervento.
I soggetti cambiano le condizioni se sviluppano senso di responsabilità o senso di proprietà rispetto al problema, abilitano competenze partecipatorie, percepiscono di avere un potere, accrescono il senso di comunità. La logica di fondo di questo scenario è l’empowerment. Empowerment, inteso come incremento delle capacità delle persone di passare dalla cosiddetta situazione di “passività appresa” del soggetto che ha sviluppato un sentimento di impotenza di fronte alle esperienze, “all’apprendimento della speranza” derivata dal sentimento di aumentato controllo sugli eventi, tramite la partecipazione e l’impegno nella propria comunità.
Empowerment si declina nello “sviluppo di comunità” e consiste nel processo per cui si supportano le persone nel miglioramento delle loro comunità attraverso azioni collettive. Tale lavoro si fonda sul riconoscere che la presenza di comunità sane non soltanto migliora la qualità della vita di chi ne fa parte, ma facilita anche l’erogazione dei servizi che in mancanza di un’adeguata organizzazione comunitaria non risulterebbero altrettanto efficaci. Quindi l’incontro tra le generazioni, che poi è anche incontro tra le istituzioni e in fondo incontro tra persone, ci è parso il terreno su cui focalizzare la riflessione e le proposte operative di azioni di dialogo e attivazione della comunità. (LL)

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