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martedì 11 febbraio 2014

È viva la famiglia?

È viva la famiglia?
di andrea Satta

in Ippogrifo 9/2013

Scrivere di famiglia è un po’ come scrivere dell’universo.
Si può partire dal molto piccolo o dal molto grande, scrivere dell’immensità e dell’infinitesimale: in entrambi i casi nulla verrà veramente spiegato.
Il rischio è di cadere nella retorica o peggio nella banalità.
La famiglia è un oggetto sociale pericoloso, in grado di raggiungere vertici di emozioni e abissi di depravazioni. È in perenne divenire, è il luogo privilegiato
delle relazioni umane, snodo di tutto l’agire quotidiano, partenza e ritorno della quotidianità. La vita, ci viene detto, parte dall’unione di due, ne è il volere o, spesso, il dovere.
La famiglia è sempre un composto, anche quando è fatta da un singolo, di sentimenti, regole, abitudini e leggi, è sempre più una ricetta dagli ingredienti difficilmente dosabili.
Quante siano le possibili combinazioni nelle relazioni, chi siano i soggetti di questo contratto e chi gli oggetti della transazione, quali i costi personali, sociali, culturali delle scelte? La famiglia possiede una tassonomia in continua evoluzione, le norme fotografano in analogico ciò che è digitale, gli attori sociali rincorrono le molecole, gli atomi e nuclei sempre a rischio di esplosione.
Possiamo definirla come una piccola bomba nucleare a rischio di fissione, a volte di fusione, le cui ricadute si sentono a distanza di anni, decenni, e provocano mutazioni sociali, culturali, relazionali, che comprendiamo solo con molto ritardo.
La famiglia è un concetto autarchico. È fine a se stessa ma è anche il fine della comunità. Non esiste comunità senza rigenerazione, dunque non esiste rigenerazione senza famiglia. Questo sembra l’assioma primo dell’autoconservazione del genere umano.
Essere senza famiglia è un peccato primigenio e, sembrano dirci gli esperti, una colpa inconsapevole, la solitudine è ciò da cui la famiglia ci protegge, ci soccorre.
Eppure la famiglia è anche il luogo in cui l’isolamento e l’abitudine ci attanagliano.
In tutto questo l’aspetto rigenerativo, l’avere o non avere, il possedere o non possedere figli è il discrimine concettuale per la tassonomia. Sono famiglie minus abens quelle senza figli? Si possono definire famiglie e basta, o bisognerebbe chiamarle famiglie in potenza? La questione etica si scontra perennemente su questo: una contemporaneità ricca di generazioni potenziali e una storia ricca di generazioni perdute. Il senso della storia, della sua distorsione morale, della sua presunta capacità di tramandare e insegnare ha forgiato un concetto di famiglia che, idealizzato, ha portato a riconoscerci solo in un topos immaginario fatto di salvazione e redenzione intrafamiliare. La famiglia che uccide, sevizia, tortura è la famiglia che sbaglia, non è più semplicemente una famiglia. Così la coppia che non è maschile e femminile, o che lo è diversamente dall’estetica, quella che non è coppia, ma è una dei suoi multipli, o quella che diviene dispari, o rimane singola, sono variabili sospette, fuori canone. Eppure reali, vive e presenti e parte integrante delle nostre comunità.
Sembra che la visione diacronica prevalga nella definizione di quello che potrebbe semplicemente chiamarsi società e che oggi più che mai, in Italia in particolare, diviene famiglia. L’etica, con o senza prefissi biologici, diventa la scusa per giudicare il modo di aggregarsi, di congiungersi e di perpetuarsi, distinguendo un bene da un male, un giusto da uno sbagliato e un vero da un falso.
Così la famiglia diviene il tramite fra individuo e Società, fra passato e Futuro, fra uomo e Dio. E le maiuscole sono giuste.

Le scorribande fra psicanalisi, diritto, sociologia, educazione, religione, cinema e arte cercheranno di dimostrare che ancora dobbiamo capire molto e che forse abbiamo frainteso troppo...

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