È viva la famiglia?
di andrea Satta
Scrivere di famiglia è un po’ come scrivere dell’universo.
Si può partire dal molto piccolo o dal molto grande,
scrivere dell’immensità e dell’infinitesimale: in entrambi i casi nulla verrà
veramente spiegato.
Il rischio è di cadere nella retorica o peggio nella
banalità.
La famiglia è un oggetto sociale pericoloso, in grado di
raggiungere vertici di emozioni e abissi di depravazioni. È in perenne
divenire, è il luogo privilegiato
delle relazioni umane, snodo di tutto l’agire quotidiano,
partenza e ritorno della quotidianità. La vita, ci viene detto, parte
dall’unione di due, ne è il volere o, spesso, il dovere.
La famiglia è sempre un composto, anche quando è fatta da un
singolo, di sentimenti, regole, abitudini e leggi, è sempre più una ricetta
dagli ingredienti difficilmente dosabili.
Quante siano le possibili combinazioni nelle relazioni, chi
siano i soggetti di questo contratto e chi gli oggetti della transazione, quali
i costi personali, sociali, culturali delle scelte? La famiglia possiede una
tassonomia in continua evoluzione, le norme fotografano in analogico ciò che è
digitale, gli attori sociali rincorrono le molecole, gli atomi e nuclei sempre
a rischio di esplosione.
Possiamo definirla come una piccola bomba nucleare a rischio
di fissione, a volte di fusione, le cui ricadute si sentono a distanza di anni,
decenni, e provocano mutazioni sociali, culturali, relazionali, che
comprendiamo solo con molto ritardo.
La famiglia è un concetto autarchico. È fine a se stessa ma
è anche il fine della comunità. Non esiste comunità senza rigenerazione, dunque
non esiste rigenerazione senza famiglia. Questo sembra l’assioma primo
dell’autoconservazione del genere umano.
Essere senza famiglia è un peccato primigenio e, sembrano
dirci gli esperti, una colpa inconsapevole, la solitudine è ciò da cui la
famiglia ci protegge, ci soccorre.
Eppure la famiglia è anche il luogo in cui l’isolamento e
l’abitudine ci attanagliano.
In tutto questo l’aspetto rigenerativo, l’avere o non avere,
il possedere o non possedere figli è il discrimine concettuale per la
tassonomia. Sono famiglie minus abens quelle senza figli? Si possono definire
famiglie e basta, o bisognerebbe chiamarle famiglie in potenza? La questione
etica si scontra perennemente su questo: una contemporaneità ricca di
generazioni potenziali e una storia ricca di generazioni perdute. Il senso
della storia, della sua distorsione morale, della sua presunta capacità di
tramandare e insegnare ha forgiato un concetto di famiglia che, idealizzato, ha
portato a riconoscerci solo in un topos immaginario fatto di salvazione e
redenzione intrafamiliare. La famiglia che uccide, sevizia, tortura è la
famiglia che sbaglia, non è più semplicemente una famiglia. Così la coppia che
non è maschile e femminile, o che lo è diversamente dall’estetica, quella che non
è coppia, ma è una dei suoi multipli, o quella che diviene dispari, o rimane singola,
sono variabili sospette, fuori canone. Eppure reali, vive e presenti e parte integrante
delle nostre comunità.
Sembra che la visione diacronica prevalga nella definizione
di quello che potrebbe semplicemente chiamarsi società e che oggi più che mai,
in Italia in particolare, diviene famiglia. L’etica, con o senza prefissi
biologici, diventa la scusa per giudicare il modo di aggregarsi, di
congiungersi e di perpetuarsi, distinguendo un bene da un male, un giusto da
uno sbagliato e un vero da un falso.
Così la famiglia diviene il tramite fra individuo e Società,
fra passato e Futuro, fra uomo e Dio. E le maiuscole sono giuste.
Le scorribande fra psicanalisi, diritto, sociologia,
educazione, religione, cinema e arte cercheranno di dimostrare che ancora
dobbiamo capire molto e che forse abbiamo frainteso troppo...
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