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giovedì 12 dicembre 2013

L’umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città

Pubblicato su  Macrame dicembre 2013

L’umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città
di Andrea Satta

Lo spazio è un concetto obiettivo. Esistono modi di intenderlo che presumono una consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si fa.
Questo vale per le persone e per le istituzioni.
Pordenone è una piccola città, da un estremo all’altro, in bicicletta, la si percorre in poche decine di minuti, per lungo e per largo. La città vera e propria è racchiusa in un ring, nome altisonante per pochi chilometri di circonvallazione interna, fuori, nel raggio di poco, ci si ritrova ancora in frazioni alternate di capannoni e campagna.
Eppure nonostante questa dimensione a volte i Pordenonesi vivono di parigina grandeur. Parcheggiano a pochi secondi dal bar dell’aperitivo, unico rito sociale rimasto in una città che da sempre mal sfrutta la sua capacità innovativa, culturale e sociale, si lamentano del costo dei parcheggi abitando a 5, 10 minuti a piedi dal corso.
Pordenone è una città ricca, anche se lo sta diventando sempre meno, ricca di luoghi pubblici di potenziale socialità che quotidianamente subiscono l’attacco di una mentalità protettiva e un po’ miope.
Le istituzioni pensano in grande, a volte grandissimo, e poi dimenticano il piccolo, piccolissimo.
Pensare, scrivere, leggere, suonare, dedicare, recitare, curare ed assistere.
Pordenone tende a usare l’infinito trasformando ciò che è piccolo in ciò che potrebbe divenire grande, dimenticando la città, la sua dimensione non certo infinita ma ben definita. A volte gli imperativi imperano: Legge! Pensa! Scrive! Dedica! quasi fosse un ordine morale per i cittadini che, invece colgono tutto ciò come hanno sempre fatto: partecipando con moderazione.
Le istituzioni sociali in questo non son diverse e portano in sè le ansie di un bambino bravo ma mingherlino.
A Pordenone non basta più pensare la città, Pordenone deve in qualche modo ripensare se stessa.
L’ultimo, in termini di tempo, episodio di difficoltà di visione politica futura è stato l’Ospedale, o meglio il Nuovo Ospedale. Dove sia giusto farlo, come e con che soldi sono argomenti di ordine politico regionale, provinciale e locale. Dove sia il giusto io, personalmente non lo so.
Una cosa però è chiara, anche a chi come me nel sociale lavora da più di 15 anni:  la discussione non ha preso la strada giusta.
Siamo ricaduti nell’effetto Great Complotto. Si parla di Pordenone come se fosse Londra. Però una cosa è certa: Pordenone potrebbe diventare come Londra… ma Londra non diventerà mai come Pordenone.
L’Ospedale serve, eccome se serve, a tutti e non solo ai cittadini. I soldi per farlo servono, e tanti. La volontà politica è essenziale, l’accordo politico no.
Ciò che servirebbe oggi, come sarebbe servita nel 1984 per la musica, è un po’ di umiltà, cercare il bene comune, e, come non mai, oggi ricostruire da zero le basi sociali, culturali e politiche di una città che si sta risvegliando, con un terribile mal di testa, dalla sbronza di benessere degli ultimi 40 anni.
Sembra mancare però l’Alka-seltzer, sembra mancare la capacità di sedersi e guardarsi in faccia e dirsi: forse era meglio non esagerare.
Passeggiando per il corso, desolatamente vuoto alle 9 di sera, sembra di camminare per una piccola Disneyland del nordest: negozi sfavillanti di merce costosa e invenduta, palazzi ristrutturati e pochi segni di (in)civiltà: nessun mozzicone per terra, bar chiusi, silenzio assordante.
Per strada la domenica, il sabato, vedi passeggiare gruppi di uomini e donne in carrozzina o tenuti per mano da altri uomini e donne con la faccia dei bravi ragazzi, alcuni, dei cattivi ragazzi altri. Sono il nostro futuro e il nostro presente che vogliamo non vedere, sono quel sommerso di lavoro di relazione e cura che ogni giorni, per poche lire, i professionisti del sociale fanno: educatori, operatori. La nomenclatura non cambia la sostanza.
La città è piena di piccoli luoghi di vita e speranza, centri di salute mentale, case di riposo, alloggi protetti. È piena di spazi con ragazzi difficili, o meglio con ragazzi diversamente facili, di luoghi con famiglie che si arrabattano scavando nei bidoni della Caritas, è piena di ragazzi sull'orlo di una crisi di identità, costretti a guardare al proprio futuro occupato da vecchi quarantenni ancora, e sempre di più, precari.
La città, le sue istituzioni, sono governate, come tutta l’Italia, quasi esclusivamente da una gerontocrazia giovanile.
Ecco cosa dovrebbe fare Pordenone: smettere di essere giovanile e diventare adulta.

Dovrebbe lasciare che a crescere siano i cittadini di ogni razza e colore (e non me ne vogliano i puristi del politicaly correct se uso razza), che a trasformare Pordenone da un deprimente status di parvenù ad un meraviglioso stato di consapevolezza, siano loro, i cittadini, di nuovo, nuovi.



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