Sportello Informadonna nuova iniziativa a Casarsa
Intervista a Ingrid Culos, consigliera Comunale del Comune di Casarsa con delega alle Pari Opportunità
a cura di andrea Satta
Pubblicato su Macramè, Aprile 2012
La consigliera comunale Ingrid Culos ci racconta la nascita dello Sportello Informadonna del Comune di Casarsa, finanziato nel 2012 dalla Regione.
Il progetto originario, Donne insieme ha come obiettivo l’integrazione delle donne di nuova immigrazione e italiane attraverso la promozione di luoghi di scambio e di aggregazione. Come è nata l’idea di sostenere un percorso dedicato alle donne?
L’amministrazione comunale ha sempre pensato che le politiche di parità riducano i costi sociali ed economici e che siano un incentivo allo sviluppo locale.
Casarsa è un comune molto sensibile alle tematiche che riguardano il sostegno alle donne e alla famiglia più in generale.
Sono numerosi i progetti messi in campo in tal senso negli ultimi anni e la nuova amministrazione intende offrire un punto di riferimento informativo e progettuale rappresentato dallo Sportello Informadonna.
Come è avvenuto il coinvolgimento delle realtà locali in un territorio ricco di associazionismo?
Le associazioni, le cooperative e le organizzazioni di familiari sono sempre state coinvolte anche grazie all’Osservatorio Sociale nella lettura dei bisogni del territorio e nella proposta di nuove opportunità.
Come ritieni che l’idea di uno sportello aziendale possa integrarsi in questo contesto?
Conosco da tempo il lavoro dello Sportello FAI e penso abbia caratteristiche molto simili al nostro progetto. Si tratta di attività di sostegno, non solo occupazionale, ma anche su questioni legate alla famiglia e alle offerte territoriali. A questo abbiamo aggiunto un’attenzione particolare a situazioni più difficili come ad esempio il mobbing, i centri antiviolenza e il sostegno alle famiglie in difficoltà. Per le persone sarà possibile avere un primo contatto per essere avviate ai servizi di competenza.
Sia il nostro progetto che lo sportello hanno coinvolto la Consigliera di Parità della Provincia Chiara Cristini, come pensi che possa svilupparsi in futuro questa collaborazione?
La figura della Consigliera di Parità, che ha una forte attenzione al mondo del mercato del lavoro, risulta estremamente importante in una situazione di crisi in cui il benessere delle donne passa soprattutto attraverso l’enpowerment, cioè la capacità di attivarsi e di sviluppare le proprie potenzialità.
Gli sportelli come questi, sono luoghi in cui le donne possono ricevere informazione, e allo stesso tempo acquisire consapevolezza. Auspichiamo che tutti insieme si possa creare una rete ampia a sostegno di questo tipo di iniziative, a partire dai comuni limitrofi e associazioni, e che in futuro questo modello possa diventare buona prassi per altre amministrazioni locali.
Conciliazione diffusa Dallo Sportello Conciliazione allo Sportello Informadonna
di andrea Satta e Elisa Giuseppin
Le buone prassi diventano tali solo quando si diffondono.
Grazie a questo assunto e grazie alla disponibilità di Ingrid Culos, consigliere del Comune di Casarsa della Delizia con delega alle Politiche Giovanili e Pari Opportunità, lo sportello Conciliazione Family Friendly FAI
potrà offrire la sua esperienza al Progetto Donne insieme.
Questo progetto prevede l’apertura di uno Sportello Informadonna. Elisa Giuseppin, referente per il rogetto, predisporrà le azioni di front office informativo, di formazione, di condivisione di banca dati e di consulenza personalizzata, sulle tematiche di conciliazione, pari opportunità, famiglia, gender mainstreaming.
Il coinvolgimento delle associazioni e delle cooperative sarà parte integrante del percorso, in particolare per quelle che hanno già attivato azioni dedicate alle donne.
La rilevazione dei bisogni degli stakeholder locali ha evidenziato come la partecipazione di tutte le famiglie e l’integrazione con i servizi esistenti, sia prioritaria per la sostenibilità del progetto.
Mutuando un’esperienza aziendale, si è voluto dare sostanza più che con una semplice convenzione, con un vero e proprio lavoro integrato tra amministrazione pubblica e privato sociale. Questo modello si va diffondendo a macchia di leopardo sul territorio friulano anche in settori apparentemente molto istituzionalizzati. Non si tratta di una delega in bianco da parte delle amministrazioni, ma ad una vera e propria coprogettazione, che ha coinvolto fin dalla fase ideativa la cittadinanza. FAI ha condiviso questa nuova opportunità per diffondere un metodo di lavoro attento allo sviluppo di comunità ed anche un nuovo modo di fare impresa.
Lo Sportello Informadonna è aperto il mercoledì pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00, presso Palazzo De Lorenzi Brinis, via Stazione 2, Casarsa della Delizia (PN). Telefono 0434 873937, email sportellodonnacasarsa@gmail.com, blog informadonnacasarsa.blogspot.it
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venerdì 6 settembre 2013
Nido Diffuso
Nido Diffuso
Modello innovativo per un servizio educativo domiciliare
Pubblicato su Macramè, Aprile 2012
di andrea Satta
FAI ha intrapreso, insieme a Codess FVG e Duemilauno Agenzia Sociale, un innovativo percorso dedicato alla prima infanzia: il Nido Diffuso. Si tratta di un nuovo modo di fare welfare locale che risponde ai bisogni dei cittadini ottimizzando le risorse, aumentando le possibilità di scelta e, contemporaneamente, offrendo alternative personalizzate per le famiglie. La proposta Nido Diffuso applica tre principi base: la territorialità
ovvero la copertura dell’intero territorio regionale, la sostenibilità ovvero la capacità di calcolare i costi benefici dal punto di vista economico, professionale, formativo, occupazionale, ed infine la cooperazione ovvero la capacità di utilizzare il proprio know-how, l’esperienza intersettoriale e la capacità di rogettazione. Il sistema cooperativo con il suo alto valore sociale può offrire come valore aggiunto: il riconoscimento da parte della comunità, la qualità del servizio, l’attenzione al lavoratore e la responsabilità sociale d’impresa.
I tre valori del progetto sono: la famiglia, la cooperazione e la fiducia. I servizi socio-educativi per la prima infanzia sono luoghi di promozione del benessere e dell’agio per bambine e bambini e svolgono n’importante
funzione di sostegno alla genitorialità e alla conciliazione tra i tempi del lavoro e della famiglia.
Il Nido Diffuso è infatti in grado di sostenere, legittimare, organizzare e connettere le strutture del privato sociale, impegnate nella progettazione e nell’offerta dei servizi prima infanzia, con il mondo dell’associazionismo familiare.
La fiducia reciproca, fra soggetto gestore, famiglie e istituzioni è la base etica su cui il modello fonda la sua forza. L’offerta del servizio tiene conto sia
della gradualità che della flessibilità necessaria per posizionarsi sul mercato, con l’intento di
calmierare i costi per le famiglie e al contempo tutelare la progettazione pedagogica, disincentivando la formula baby parking ed offrendo percorsi e attività adatte alla crescita dei bambini.
La Rete offrirà pacchetti flessibili e differenziati per ogni struttura prevedendo alternative personalizzate all’interno dell’intero sistema integrato. Il servizio è rivolto a bambini e bambine dai 3 ai 36 mesi, alle loro famiglie ed alle associazioni che le rappresentano. Inoltre il servizio intende offrire un’opportunità occupazionale per donne in possesso dei titoli previsti e della disponibilità del domicilio idoneo. Il 19 dicembre la Rete per l’Innovazione nel Sociale ha presentato con l’Assessore Roberto Molinaro, presso la sede della Regione FVG di Udine, il progetto Nido Diffuso. È iniziata una nuova avventura.
Modello innovativo per un servizio educativo domiciliare
Pubblicato su Macramè, Aprile 2012
di andrea Satta
FAI ha intrapreso, insieme a Codess FVG e Duemilauno Agenzia Sociale, un innovativo percorso dedicato alla prima infanzia: il Nido Diffuso. Si tratta di un nuovo modo di fare welfare locale che risponde ai bisogni dei cittadini ottimizzando le risorse, aumentando le possibilità di scelta e, contemporaneamente, offrendo alternative personalizzate per le famiglie. La proposta Nido Diffuso applica tre principi base: la territorialità
ovvero la copertura dell’intero territorio regionale, la sostenibilità ovvero la capacità di calcolare i costi benefici dal punto di vista economico, professionale, formativo, occupazionale, ed infine la cooperazione ovvero la capacità di utilizzare il proprio know-how, l’esperienza intersettoriale e la capacità di rogettazione. Il sistema cooperativo con il suo alto valore sociale può offrire come valore aggiunto: il riconoscimento da parte della comunità, la qualità del servizio, l’attenzione al lavoratore e la responsabilità sociale d’impresa.
I tre valori del progetto sono: la famiglia, la cooperazione e la fiducia. I servizi socio-educativi per la prima infanzia sono luoghi di promozione del benessere e dell’agio per bambine e bambini e svolgono n’importante
funzione di sostegno alla genitorialità e alla conciliazione tra i tempi del lavoro e della famiglia.
Il Nido Diffuso è infatti in grado di sostenere, legittimare, organizzare e connettere le strutture del privato sociale, impegnate nella progettazione e nell’offerta dei servizi prima infanzia, con il mondo dell’associazionismo familiare.
La fiducia reciproca, fra soggetto gestore, famiglie e istituzioni è la base etica su cui il modello fonda la sua forza. L’offerta del servizio tiene conto sia
della gradualità che della flessibilità necessaria per posizionarsi sul mercato, con l’intento di
calmierare i costi per le famiglie e al contempo tutelare la progettazione pedagogica, disincentivando la formula baby parking ed offrendo percorsi e attività adatte alla crescita dei bambini.
La Rete offrirà pacchetti flessibili e differenziati per ogni struttura prevedendo alternative personalizzate all’interno dell’intero sistema integrato. Il servizio è rivolto a bambini e bambine dai 3 ai 36 mesi, alle loro famiglie ed alle associazioni che le rappresentano. Inoltre il servizio intende offrire un’opportunità occupazionale per donne in possesso dei titoli previsti e della disponibilità del domicilio idoneo. Il 19 dicembre la Rete per l’Innovazione nel Sociale ha presentato con l’Assessore Roberto Molinaro, presso la sede della Regione FVG di Udine, il progetto Nido Diffuso. È iniziata una nuova avventura.
Il vicolo Cieco
Il vicolo cieco
La nonrivoluzione italiana
Pubbilcato su Macramè, Aprile 2012
L’Italia è il Paese delle rivoluzioni annunciate.
Ogni governo promette riforme epocali che spesso nascondono semplici e controrivoluzionarie manovre finanziarie. Il sistema Italia, ammesso che si possa definire sistema, mantiene una stratificazione normativa che applica regi decreti e leggi del ventennio fascista.
La definizione di un sistema politico, o di un regime se non diamo un’accezione negativa alla parola, deve essere in grado di definire limiti, o semplicemente diritti e doveri sia per chi le leggi deve applicarle sia per
chi deve rispettarle.
L’Italia è da questo punto di vista quello che da studente mi sembrava l’aspetto più anarchico del greco antico: le regole che devi studiare meglio sono le eccezioni.
Abbiamo delle regole ma ciò che ci guida è l’eccezione alla regola.
Non credo che la vera rivoluzione sia creare regole ma semplicemente uscire dal cul de sac dove novanta anni di regimi dittatoriali e democratici ci hanno portato.
Siamo veramente in un vicolo chiuso?
Prendiamo il nostro sistema di welfare. La costituzione lo vorrebbe universalistico: l’articolo 3 dice che siamo tutti uguali, e solidaristico (art.2), ma la riforma del Titolo V ha introdotto un mini federalismo attraverso la sussidiarietà, ovvero le regioni più ricche aiutano quelle più povere.
Quindi l’Italia è diventata un po’ più federalista e il suo welfare un po’ meno centralista. Detto così verrebbe da dire che, finalmente, una vera riforma è iniziata. Eppure l’incertezza regna sovrana: siamo federalisti nell’erogazione degli interventi ma centralisti nella distribuzione delle risorse necessarie al funzionamento.
Così verrebbe da pensare che se siamo tutti uguali curarsi a Orotelli è uguale che curarsi a Villa Santina, che essere assistito da ricco è uguale che essere assistito da povero.
L’Italia sembra un bambino indeciso, nonostante stia lentamente raggiungendo la maturità democratica, ovvero abbia raggiunto cent’anni o poco più di democrazia imperfetta.
Ogni volta che ci si pone la domanda dove stiamo andando siamo incerti, come un bambino capriccioso: vorrei il sistema universalistico ma anche selettivo, le pensioni statali ma anche i fondi integrativi, il lavoro fisso ma anche flessibile, gli ospedali pubblici ma a pagamento, le scuole pubbliche ma a carico dei genitori...
Siamo sempre un po’ comunisti con forti propensioni al liberalismo, siamo un po’ liberali ma con grande attenzione al consociativismo, siamo familisti per le famiglie altrui e libertini per le nostre, siamo generosi con il terzo mondo e violenti con i rom italiani, siamo federalisti quando si tratta di ricevere soldi e centralisti
quando si tratta di non darli ad altre regioni, siamo autonomisti se ricchi e nazionalisti se poveri (e incredibilmente anche viceversa). Cosa ci aspetta nei prossimi anni? Una sintesi tutta italiana dei modelli politici europei (e non solo). Oppure, come sembra prospettarsi anche dopo questi primi mesi dell’anno, torneremo a parlare di riforme epocali, di pericoli rossi, arancioni e blu, di colpe altrui e ente parlare
del nostro sistema statuale, ha bisogno di chiarezza: o di qua o di là. Il vero problema è che non si sa cosa sia il qua ed il là.
Forse almeno questo potremmo chiederlo.
La nonrivoluzione italiana
Pubbilcato su Macramè, Aprile 2012
L’Italia è il Paese delle rivoluzioni annunciate.
Ogni governo promette riforme epocali che spesso nascondono semplici e controrivoluzionarie manovre finanziarie. Il sistema Italia, ammesso che si possa definire sistema, mantiene una stratificazione normativa che applica regi decreti e leggi del ventennio fascista.
La definizione di un sistema politico, o di un regime se non diamo un’accezione negativa alla parola, deve essere in grado di definire limiti, o semplicemente diritti e doveri sia per chi le leggi deve applicarle sia per
chi deve rispettarle.
L’Italia è da questo punto di vista quello che da studente mi sembrava l’aspetto più anarchico del greco antico: le regole che devi studiare meglio sono le eccezioni.
Abbiamo delle regole ma ciò che ci guida è l’eccezione alla regola.
Non credo che la vera rivoluzione sia creare regole ma semplicemente uscire dal cul de sac dove novanta anni di regimi dittatoriali e democratici ci hanno portato.
Siamo veramente in un vicolo chiuso?
Prendiamo il nostro sistema di welfare. La costituzione lo vorrebbe universalistico: l’articolo 3 dice che siamo tutti uguali, e solidaristico (art.2), ma la riforma del Titolo V ha introdotto un mini federalismo attraverso la sussidiarietà, ovvero le regioni più ricche aiutano quelle più povere.
Quindi l’Italia è diventata un po’ più federalista e il suo welfare un po’ meno centralista. Detto così verrebbe da dire che, finalmente, una vera riforma è iniziata. Eppure l’incertezza regna sovrana: siamo federalisti nell’erogazione degli interventi ma centralisti nella distribuzione delle risorse necessarie al funzionamento.
Così verrebbe da pensare che se siamo tutti uguali curarsi a Orotelli è uguale che curarsi a Villa Santina, che essere assistito da ricco è uguale che essere assistito da povero.
L’Italia sembra un bambino indeciso, nonostante stia lentamente raggiungendo la maturità democratica, ovvero abbia raggiunto cent’anni o poco più di democrazia imperfetta.
Ogni volta che ci si pone la domanda dove stiamo andando siamo incerti, come un bambino capriccioso: vorrei il sistema universalistico ma anche selettivo, le pensioni statali ma anche i fondi integrativi, il lavoro fisso ma anche flessibile, gli ospedali pubblici ma a pagamento, le scuole pubbliche ma a carico dei genitori...
Siamo sempre un po’ comunisti con forti propensioni al liberalismo, siamo un po’ liberali ma con grande attenzione al consociativismo, siamo familisti per le famiglie altrui e libertini per le nostre, siamo generosi con il terzo mondo e violenti con i rom italiani, siamo federalisti quando si tratta di ricevere soldi e centralisti
quando si tratta di non darli ad altre regioni, siamo autonomisti se ricchi e nazionalisti se poveri (e incredibilmente anche viceversa). Cosa ci aspetta nei prossimi anni? Una sintesi tutta italiana dei modelli politici europei (e non solo). Oppure, come sembra prospettarsi anche dopo questi primi mesi dell’anno, torneremo a parlare di riforme epocali, di pericoli rossi, arancioni e blu, di colpe altrui e ente parlare
del nostro sistema statuale, ha bisogno di chiarezza: o di qua o di là. Il vero problema è che non si sa cosa sia il qua ed il là.
Forse almeno questo potremmo chiederlo.
giovedì 14 marzo 2013
Uno spettro si aggira per Riva del Garda: lo spettro dell'Innovazione.
Uno spettro si aggira per Riva del Garda: lo spettro dell'Innovazione.
Resoconto di una grande speranza.
Workshop sull'innovazione sociale di Iris Network
Andrea Satta, Coordinatore Rete d’Impresa
L'innovazione aleggia come un fantasma fra le sale di Riva del Garda. Tutti ne parlano, tutti la cercano, tutti vorrebbero vederla seduta al loro tavolo.
In questi ultimi mesi l'innovazione è diventata la parola d'ordine, tutto è diventato SMART, ICT, VENTURE CAPITAL, STARTUP, CLOUD, AAL... Una sbornia che sarà difficile da smaltire e che ci lascerà un gran mal di testa.
Il decimo Workshop di IRIS Network ha deciso di puntare tutto sull'innovazione, al limite di tempo massimo per la preiscrizione al nuovo torneo o tornata di fondi Europei e nazionali.
Senza innovazione non si innova, verrebbe da dire tautologicamente, ma cosa questo significhi per il sociale è assai difficile a dirsi: diventare tecnologici o diventare altro.
Stefano Borzaga nel suo intervento ha detto una cosa lapalissiana a cui probabilmente tutti noi, che con il welfare abbiamo a che fare, dobbiamo adeguarci: il mercato e il capitalismo non sono la stessa cosa.
La Cooperazione Sociale in Italia si immedesima con l'impresa sociale creando fin dall'inizio quel grande fraintendimento in cui impresa appare quasi una parola da lasciare in secondo piano, perché ha a che fare prima con capitale che con mercato. Ed è qui che si vuol far passare il cammello nella cruna (anche se si trattava di una gomena): fare impresa in un altro mercato, in un'altra società. É tutto nascosto nel suffisso altro (AltroMercato, Altraeconomia) come a volersi distinguere dai cattivi, quelli dell'Economia, della Finanza, del Capitale.
Il rapporto di IRIS Network, e soprattutto il clima del convegno, hanno però evidenziato che le condizioni non sono più tali per creare altro, per distinguere fra buoni e cattivi. Bisogna entrare nel mercato (quello unico Europeo prima di tutto) portando quel IVA sociale in cui la I sta per Innovazione.
Torniamo dunque alla parola magica. Luca Fazi, sempre acuto e previdente, ci ricorda che esistono almeno quattro tipi di innovazioni: incrementale, espansiva, evolutiva e totale.
Tutti noi abbiamo sbirciato le slide che accompagnavano l'intervento finale e abbiamo sogghignato pensando ai concorrenti espansivi, e lo stesso hanno fatto di noi i concorrenti. Insomma tutti avremmo voluto poter dire che siamo innovativi totali: L'innovazione totale [...] implica la sperimentazione di nuovi modi di lavorare e organizzare i servizi fornendo risposte a bisogni prima non considerati.”
Come non sentirsi coinvolti e adatti a tale approccio, come non pensare ad un altro modo di essere attori sociali, pro-attivi, propositivi, innovativi. In una parola SMART. Gli acronimi si sprecano e SMART è divenuta la parola senza la quale non si può fare nulla. È l'integrazione dei primi anni 2000 ed il glocal della fine dei '90.
Per essere smart non basta avere la tecnologia, bisogna che qualcosa o qualcuno sostenga l'utilizzo degli strumenti ICT, bisogna che affianco al tablet collegato inclouding ci sia una noiosissima e utilissima capacità di ripensare alle proprie aziende, al proprio sistema di governance, alla propria mission. Insomma ad un numero notevole (eccessivo) di termini inglesi.
Il mercato, dalla ventosa Riva del Garda, appare un grande fratello che tutto controlla e tutto governa, un sistema da scardinare a favore di un mondo migliore. Ma è veramente così? Non pecchiamo noi (co)operatori di Ybris nel voler andare contro gli dei? Il mercato non è un golem malvagio, non è un qualcosa altro da noi, ma è il modo con cui effettuiamo i nostri scambi, le nostre relazioni economiche. Se solo comprendessimo che un altro mercato è sempre possibile, perché gli attori di questo mercato siamo noi. La vera novità sarebbe accettarne le regole senza ipocrisie e cambiarle da soggetti autorizzati a farlo, ovvero da importanti, fondamentali soggetti economici.
Ho l'impressione che la vera innovazione passi proprio per quell'IVA di cui parlavo prima, da quella percentuale di Innovazione che mettiamo nel nostro agire economico, da quella capacità di indirizzare le scelte della società verso transazioni economiche (e relazionali, ammesso che ci sia differenza) che definiamo etiche o, come preferisco, responsabili.
Il concetto di responsabilità deve andar prima di quello di eticità, le scelte sono etiche se sono responsabili, se hanno la capacità di far corrispondere la risposta al bisogno e di farlo senza che questo crei un nuovo bisogno peggiore del primo.
L'innovazione passa dunque attraverso la responsabilità, e non è un caso che senza Corporate Social Responsability il sistema non regga, e la responsabilità passa attraverso il cambiamento, l'autodeterminazione e la consapevolezza. In tutto questo la tecnologia a cosa serve? Come twitta Graziano Maino #mainograz pensa le tecnologie non sono l'opposto del senso. Non c'è innovazione che non abbia componenti tecnologiche. Vuol dire comprendere la necessità di utilizzare gli strumenti tecnologici per attivare, sostenere, introdurre processi di innovazione sociale. Ma l'idea, la formula, l'alchimia che trasforma la cooperazione sociale in Impresa sociale innovativa, non è nel mezzo che utilizziamo ma nel fine che vogliamo raggiungere con la tecnologia.
Adesso bisogna solo trovare il senso.
Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione.
Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione. Bastano tre parole per essere risorsa partecipativa?
Andrea Satta
Le parole hanno significato per quel che attuano.
I nuovi Piani di Zona che ogni Ambito Distrettuale dovrà predisporre sono una grande opportunità e insieme un enorme rischio.
Esistono, infatti, strumenti che appaiono fin dal primo momento funzionali ai processi di pianificazione territoriale, esistono altri che hanno bisogno di una lunga gestazione e spesso rischiano di nascere quando i fratelli sono già troppo grandi e camminano con le proprie gambe. Abbiamo visto come il terzo settore, la cooperazione, ma anche la politica a volte, abbia la capacità di affrontare la contingenza e di produrre risposte immediate ed idonee. Certo sono figli illegittimi (senza legittimità normativa) ma sono pur sempre figli.
Il welfare, parola inglese che mutuiamo con estrema leggerezza, è un sistema complesso, arzigogolato, intrecciato. Il Piano di Zona vorrebbe ordinarlo, rendere il sistema più efficiente, efficace ed economicamente sostenibile. Le tre E sono sempre più presenti e, oggi con la crisi che travolge tutto e tutti, la terza E di economia diviene più che una speranza una minaccia.
Ci sono strumenti, anche se la terminologia sociale e istituzionale può essere fuorviante per i non addetti ai lavori, che dovrebbero fornire il modo per andare ad erogare servizi, interventi, finanziamenti. Il Piano di Zona è lo strumento principe di questo complesso e non sempre comprensibile processo di programmazione locale.
Partiamo dal capire che quando si parla di programmazione non si parla ancora di risultati, quando si parla di progetti non si parla ancora di azioni concrete. Insommafra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Il mare, nel nostro caso sono i prossimi tre anni 2013/2015, è vasto e l'imbarcazione con cui le istituzioni si propongono di navigarlo, sembra essere un po' stretta e soprattutto priva dell'essenziale carburante finanziario. Infatti proprio la dotazione economica sembra essere, insieme alla scelta delle priorità di intervento, il vero tallone di Achille dell'intero dispositivo normativo. I fondi, di cui i singoli Piani di zona (e in provincia di Pordenone saranno 5) potranno fruire, sono gli stessi con cui si erogheranno i servizi e gli interventi. Per usare una metafora parlamentare sembra che questi Piani di zona servano più a mettere in ordine l'esistente che a creare innovazione. Insomma sono una sorte di legge quadro che raccoglie in alcune aree l'esistente, lo sistematizza e lo rioffre semplificato alla cittadinanza. Se così fosse già si sarebbe ottenuto un notevole risultato. Ma a che prezzo?
Le linee guida, l'apparato normativo, la predisposizione di programmi, di progetti e di processi di governance possono apparire come una mole di lavoro e di impegno abnorme e di cui ancora non si comprende la reale ricaduta sul sistema di erogazione dei servizi.
Si tratta in questa prima fase di processi governance, altra parola che significativamente non ha traduzione in italiano, ovvero di quel complesso sistema di gestione e governo delle leggi, delle norme, relazioni che servono a predisporre un processo partecipativo.
Governance significa, almeno nella declinazione sociale di cui parliamo, coinvolgimento, partecipazione, ascolto, raccolta bisogni, istanze, proposte, in una parola tavoli. La parola oltre evocare un (magro) banchetto ha, sui professionisti del sociale, un effetto rassegnato di grande dispendio di energie e di basso risultato poi sul piano attuativo. Purtroppo, e credo per una cattiva interpretazione dell'assunto partecipativo, i tavoli sono risorse di grande valore che però rimangono ingabbiati in un dispositivo che ha già in se le risposte.
Dopo l'esperienza 2006/2008 del primo Piano di Zona la parola d'ordine rimane ancora l'integrazione Socio Sanitaria. Si tratta di un'integrazione che, nei fatti, stenta a decollare e che rimane speranza prima ancora che progetto. Eppure da essa non si può prescindere in un sistema che a livello locale, regionale e nazionale e, parzialmente, europeo, si sta posizionando su tre macro aree di lavoro: Occupabilità, Sanità e Famiglia. Ciò obbliga il Sistema dei Servizi Sociali (dei Comuni) a confrontarsi non solo nelle aree ad alta integrazione sociosanitaria ma anche nel mercato del lavoro e nella comunità, con tutto quello che significa questa enorme parola/contenitore.
Come tutti gli strumenti anche il PDZ non ha valore etico ma la scrittura, la costruzione, gli indirizzi politici, morali e a volte etici per cui questo strumento è stato scritto sono chiari: intervenire nella ridefinizione del sistema di welfare, intervenire in aree ritenute scoperte o di particolare interesse comunitario e contingente (aree materno-infantile, disabilità, anziani, inserimento lavorativo, famiglia e genitorialità).
C'è da chiedersi se ha valore etico il coltello o il fatto che si usi per uccidere, così c'è da chiedersi se il PDZ debba essere giudicato per quello che è in potenza o per quello per cui verrà utilizzato.
In tutto questo la Cooperazione Sociale? Sembra un po' un convitato di pietra, che però è presente e partecipante ai processi di erogazione dei servizi.
Anche questa come tante altre volte è una questione di significati che vogliamo dare alle parole. Cooperazione non è forse sinonimo di partecipazione?
Progetti per le famiglie: il nuovo welfare passa per l'associazionismo?
Progetti per le famiglie: il nuovo welfare passa per l'associazionismo?
Andrea Satta e Elisa Giuseppin
La famiglia diviene sempre di più lo snodo delle politiche regionali di welfare. Questa svolta, iniziata ormai da alcuni anni con l'approvazione della L.R. 11/2006, ha visto una sua concreta realizzazione nella erogazione dei contributi legati alBando Famiglia 2012.
Sabato 29 settembre, alla presenza dell'assessore Roberto Molinaro e dei rappresentanti dell'Area Welfare di Palmanova (Ente gestore del finanziamento), sono state date le prime indicazioni sulla realizzazione dei progetti.
La dott.ssa Carrà dell'Università Cattolica di Milano, ha delineato le prospettive future di integrazione fra sistemi socio-assistenziali e associazionismo familiare. Si tratta di un approccio che affonda le sue radici nel Libro Bianco La vita buona nella società attiva del 2009 in cui la famiglia e la partecipazione degli attori comunitari era stata delineata come possibile risorsa del sistema di welfare.
[la famiglia] è soprattutto il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni.
Il ministro Sacconi aveva individuato l'ossimoro di universalismo selettivo come cardine del sistema misto di welfare.
È un modello che valorizza la responsabilità degli individui e la capacità dell’attore pubblico di stabilire ordini di priorità e dosare le risorse per mantenere il più possibile ampia la platea delle prestazioni e dei beneficiari, nel rispetto degli equilibri finanziari e senza introdurre discontinuità nei trattamenti.
I dati e le tecniche che gli intervenuti al convegno hanno evidenziato come buone prassi, passano tutte attraverso lo spontaneismo familiare che si struttura per divenire associazionismo e poi comunità.
Si passa dunque da una visione assistenziale, in cui professionalità, strutturazione e normazione hanno un peso predominante, ad un sistema che vede nella capacitazione (empowerment) dei fruitori finali il modello predominante.
In questo contesto quale diventa il ruolo dell'operatore, quale quello della cooperazione sociale? Che fine faranno gli investimenti della cooperazione nella formazione? Che fine faranno le risorse umane e finanziarie messe in campo per la crescita dei propri operatori?
La risposta, che solo parzialmente ci soddisfa, è che l'operatore in primis, e poi la cooperazione sociale, debbano diventare degli agenti di stimolo all'autorganizzazione familiare e comunitaria. Ciò significa ridefinire il ruolo dei servizi, la tipologia degli interventi e la destinazione dei finanziamenti in funzione di un welfare ancora da costruire e i cui confini rimangono, nonostante la buona volontà e l'impegno dell'Assessorato alla Famiglia, incerti.
Il bando famiglia, a cui FAI ha partecipato e ottenuto il finanziamento, è così occasione per dimostrare come il welfare aziendale possa divenire una buona prassi di quest'alchimia, ovvero la palestra in cui i soci (familiari e al contempo lavoratori) possano trovare nuove forme di autosostegno, partecipazione e condivisione degli obiettivi generali.
L'ottimo successo del Bando, pubblicato in febbraio, indica come sia forte e presente il bisogno di intervenire in aree scoperte, come ad esempio quelle dedicate all'infanzia e alla formazione, così come appare evidente dalla distribuzione territoriale, la forte vocazione associativa delle Provincie di Pordenone e Udine.
Un punto di forte criticità è dato dalla bassa presenza di cooperative sociali quali soggetti proponenti, evidenziando ancora un forte scollamento fra indirizzi politici e attuazione degli stessi nel contesto cooperativo. Infatti dei 123 progetti approvati, solo 8 sono stati ottenuti dalla cooperazione sociale, nonostante fossero, insieme alle associazioni, i soggetti attuatori del Bando.
C'è da chiedersi quale sia la ragione di questa bassa partecipazione in un momento di forte crisi e di difficoltà di accesso ai finanziamenti. Una prima spiegazione potrebbe stare nella difficoltà delle organizzazioni complesse, e l'impresa sociale sicuramente lo è, a cogliere i cambiamenti in modo veloce e leggero. D'altra parte le cooperative sono oggi i soggetti principali del sistema di welfare locale e il loro coinvolgimento è il criterio guida per la realizzazione del sistema integrato di servizi e interventi, come la L. 328/00 e la L.R. 6/2005 hanno definito ormai da anni. La capacità delle Cooperative di innovare, di competere, di rispondere in modo professionale ai bisogni è uno dei tasselli, forse uno dei più importanti, dell'intero sistema di welfare e la partecipazione a questi processi sistemici non può essere delegata ai rappresentanti dell'associazionismo e del volontariato che hanno altro ruolo e altra capacità di intervento.
In conclusione la partecipazione a progetti che pongano in primo piano la famiglia diviene per le cooperative, e il percorso sulle politiche di conciliazione FAI lo dimostra, un metodo di lavoro in cui è l'empowerment dell'intero sistema aziendale a produrre il vero valore aggiunto per la comunità.
domenica 6 gennaio 2013
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