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lunedì 13 febbraio 2012

editoriale diffuso...

Bozzetti introduttivi alle sezioni dell'Ippogrifo 6, inverno 2011.

Il gioco dei legami

Il gioco è libertà ma la libertà non è un gioco.
Fausto Melotti, Linee

Guardo il campo di gioco: è sempre quello. Tre pali per due, linee di gesso per terra, quattro angoli a cui arrivare e un centro da cui partire. I giocatori aspettano che le regole siano ricordate e che l'arbitro dia avvio alla partita. Guardano il pubblico che aspetta trepidante.
Qualcuno violerà le regole, qualcuno scatterà furbescamente e strapperà la vittoria, qualcuno si farà male, qualcuno perderà, tutti giocheranno, anche chi non toccherà l'erba.
Alla fin fine è solo un gioco, alla fin fine è tutto qui: regole, trasgressione, vittoria e sconfitta.
Biglietto ben speso.

Legami locali

Confine, sost. In geografia politica, una linea immaginaria tra due nazioni che separa i diritti immaginari dell'una dai diritti immaginari dell'altra.
Ambrose Bierce, Il dizionario del diavolo

In questa terra il confine è segnato da un fiume slabbrato.
È già difficile normalmente raccapezzarsi fra paesi dai nomi fantasiosi, dalle finali tronche e dagli accenti non sai mai se sdruccioli o piani, senza trovarsi anche a zigzagare fra enclave americane, zone industriali e immaginari scientifici, sussurri e grida.
Provo a camminare fra la gente. Sembra di essere a casa, a casa di buona parte di quel mondo che è venuto a ricucirsi la vita sul confine di un fiume dagli orli frastagliati. Me compreso.

Legami insostenibili

La legge della maggioranza non è sempre sinonimo di democrazia, di libertà e di uguaglianza; talvolta è sinonimo di tirannia, di asservimento e di discriminazione.
Amin Maalouf, Les identités meurtrières

Alla manifestazione c'era poca gente. Cartelli scritti a mano, bandiere variopinte, tanti poliziotti quanti manifestanti. Un rapporto 1 a 1.
Ho incontrato un vecchio amico dall'inconfondibile barba incolta rivoluzionaria. Beato lui che può manifestare, almeno il diritto di farlo gli è rimasto. Ho fatto la mia piccola manifestazione anche io, non sono andato a lavorare, più di questo non mi è permesso. Il mio preside diceva: non si può scioperare se non si lavora. Pensavo bastasse. La frase corretta era: non puoi manifestare se non sei qualcuno, o qualche cosa... ed io cosa sono?
Una vecchia barbona, antipatica, mi assilla con la dose quotidiana di lavaggio a secco di coscienza. Oggi sono buono e le sorrido.

Legami più che umani
La religione è semplicemente un insieme di pensiero e azione, di princìpi e di atti (che possono accrescersi e variare) allo scopo di preparare e formare in noi l'apertura religiosa.
Aldo Capitini, Religione Aperta

Il pavimento è gelido. Sarà perché è inverno. Nella cripta sotto l'altare maggiore ci sono tre pie donne in legno, una pietà complessa. Un tempo, forse, al posto delle statue c'era una piccola fonte d'acqua.
Parlo con un po' di soggezione di culti assorbiti, di sincretismi e persecuzioni, di donne volanti unte dal Diavolo e di uomini santi unti dal Signore.
Sarà perché piove, a goccioline infinitesimali, ma sto meglio dentro che fuori. Il freddo ai piedi, l'umidità nelle ossa?
Tutto si cura nel silenzio più che nel rumore.

Camminare, una rivoluzione- Recensione Ippogrifo


Pubblicato su Ippogrifo 6, inverno 2011

Camminare, una rivoluzione
Labbucci Adriano
Donzelli, Collana Saggine
2011
Pagine 100,
EAN 9788860366283


Dovrei scrivere queste note camminando, o almeno pensarle, spostandomi da un luogo ad un altro. Avrei dovuto leggere Camminare, una rivoluzione deambulando e non seduto in poltrona come ho fatto.
La prima domanda è: Camminare è spostarsi da A a B, raggiungere una meta, arrivare ad un(a) fine? O camminare è indeterminato, è senza tempo, senza motivo, senza distanza?
Camminare è contemporaneamente mezzo e fine, attraverso e meta, in cui è predominante la dimensione del piacere e della curiosità come fine in sé, non strumento per qualche altra cosa. (p.18)
In questo è rivoluzionario, pretende di cambiare non solo la realtà ma anche l'immaginazione, i camminatori, racconta Labbucci, non contano i passi, ma contano i luoghi, archiviano emozioni e non battiti del cuore.
Chi cammina lo fa comodamente, è leggero ma non nudo, è costante ma non inflessibile, si ferma quando vuole e riprende con la stessa noncuranza, è irrequieto ma non inquieto.
Andare a passeggio è una cosa che i bambini sanno fare, a modo loro, curiosi, attivi, ricettivi, trasformano ogni attività in un gioco segreto di cui raramente cogliamo le regole (conta i passi, stacca le gomme, scalcia i sassi, scrosta i muri, cammina sui bordi). Per loro, come per noi inconsapevolmente:
Camminare è libertà. Libertà è autonomia. Autonomia è rischio. Camminare è rischioso (p.63)
Oggi non passeggiamo più, non corriamo pericolo. Andiamo sempre da qualche parte a fare qualche cosa: comprare, lavorare, bere, mangiare, apprendere, curarsi. Non passeggiamo più, e non stiamo neanche più fermi.
Se passeggi sei un anormale: devi camminare in montagna, devi fare trekking, o fare un pellegrinaggio devozionale, camminare è troppo poco e, soprattutto, non produce nulla.
Se si è umili si cammina, con Dio o senza Dio; se si è superbi non si cammina si striscia.
L'umiltà è l'anima del camminare
Ricordo da ragazzo le infinite passeggiate circolari, una sorta di pratica sufi rallentata, un deambulare frenetico, a passi lenti e spavaldi, attento alle facce, ai vestiti, ai corpi dell'altro. Accadeva di scoprire angoli, altezze e vie di fuga inaspettate. La città, la piccola città della mia adolescenza, era il luogo della wilderness urbana inconsapevole.
Passeggiare permette questo: l'osservazione distratta.
Permette di vedere, guardare, osservare o studiare a seconda della curiosità, della casualità. Nel camminare non c'è nulla di trascendente, non si aspira ad una vetta ne si rischia di cadere in un baratro.
Solo camminare ci fa ritrovare, ci permette di passare decine di volte per la stessa strada e vederla sempre nuova: luminosa, oscura, fredda, calda, profumata o pestilenziale. Ogni particolare può cambiare, come naturalisti osserviamo le incrostazioni dei muri allo stesso modo dello sbocciare dei fiori. Labbucci ci racconta dei molti flâneur, dell'arte di andare a passeggio per le strade come se si fosse in collina fra filari di cipressi. Oggi che è tutto telecamere e sicurezza, che senso ha passeggiare in città? Oggi che persino le campagne sono ciclovie, ippovie, sentieri letterari, oggi che le piazze sono o parchi a tema aperitivo, o sono deserte senza bar e negozi, oggi che le piazze sono quelle dei centri commerciali con tanto di bancarelle e giocolieri che senso ha passeggiare?
Solo camminando si può scoprire quante persone e quante porte possono ancora aprirsi sull'onda di un «Buongiorno» e portando con sé il sorriso migliore, quante riserve di umanità e gentilezza si possono ancora trovare se si esce e si riesce a parlare. (p.144)
Camminare, una rivoluzione rende omaggio a Bruce Chatwin, al suo nomadismo intellettuale, ci ricorda che camminare ci permette di passare sulla terra leggeri, di incidere sulla storia con la nostra vita, con la nostra singola diversità, di transitare dalla normalità, sempre banale, alla alterità, sempre unica e pericolosa.
È una verità storica che nei regimi dittatoriali il movimento, in ogni sua forma, è guardato con sospetto, elemento di disturbo da tenere a freno poiché rompe l'ordine imposto. (p.48)
Camminare è politico, è comunità. Si cammina da soli, sempre, perchè camminare è anarchico , è individualista, è democratico.
Le dittature marciano, fanno adunate, schierano masse e non individui. Per muoversi, nelle dittature, servono timbri, documenti, autorizzazioni, motivi validi. Non ci si muove da soli ma in modo coatto, prestabilito o accompagnati.
Camminare permette di pensare, di parlare e di stare zitti. Di riposare e di fermarsi, di stancarsi e di rinfrancarsi.
La politica dovrebbe essere la stessa cosa: pensare, parlare, rinfrancarsi, fermarsi a riposare. Far riposare la comunità, farla godere di ciò che il pensiero e la parola hanno trasformato in politica e la politica in azione e Labbucci ci ricorda che si può, ancora, fare.

venerdì 10 febbraio 2012

povertà, miseria e austerità

in un periodo di povertà latente, miseria evidente e sobrietà nascente leggere l'austerità di Tony Judt è illuminante.

Austerity by Tony Judt | The New York Review of Books

My wife earnestly instructs Chinese restaurants to deliver in cardboard cartons. My children are depressingly knowledgeable about climate change. Ours is an environmental family: by their standards, I am a prelapsarian relic from the age of ecological innocence. But who traipses through the apartment switching off lights and checking for leaking faucets? Who favors make-do-and-mend in an era of instant replacement? Who recycles leftovers and carefully preserves old wrapping paper? My sons nudge their friends: Dad grew up in poverty. Not at all, I correct them: I grew up in austerity.
After the war everything was in short supply. Churchill had mortgaged Great Britain and bankrupted the Treasury in order to defeat Hitler. Clothes were rationed until 1949, cheap and simple “utility furniture” until 1952, food until 1954. The rules were briefly suspended for the coronation of Elizabeth, in June 1953: everyone was allowed one extra pound of sugar and four ounces of margarine. But this exercise in supererogatory generosity served only to underscore the dreary regime of daily life.
To a child, rationing was part of the natural order. Indeed, long after the practice ceased, my mother convinced me that “sweets” (candy) were still restricted. When I protested that school friends appeared to have unlimited access to the stuff, she explained disapprovingly that their parents must be on the black market. Her story was all the more credible because the legacy of war was ever-present. London was pockmarked with bomb sites: where once there had been houses, streets, railway yards, or warehouses there were now large roped-off areas of dirt, usually with a dip in the middle where the bomb had fallen. By the early 1950s unexploded ordnance had been mostly cleared and bomb sites—though off-limits—were no longer dangerous. But these impromptu play spaces were irresistible for small boys.
Rationing and subsidies meant that the bare necessities of life were accessible to all. Courtesy of the postwar Labour government, children were entitled to a range of healthful products: free milk but also concentrated orange juice and cod-liver oil—obtainable only in pharmacies after you established your identity. The orange juice came in rectangular, medicine-like glass bottles and I have never quite lost the association. Even today, a large glassful prompts in me a sublimated pang of guilt: better not drink it all at once. Of cod-liver oil, urged upon housewives and mothers by benevolently intrusive authorities, the less said the better.
We were fortunate to lease an apartment above the hairdressing shop where my parents worked, but many of my friends lived in substandard or temporary housing. Every British government from 1945 through the mid-1960s committed itself to large-scale public housing schemes: all fell short. In the early 1950s, thousands of Londoners still lived in “prefabs”: urban trailer parks for the homeless, ostensibly temporary but often lasting for years.
Postwar guidelines for new housing were minimalist: three-bedroom houses were to comprise at least nine hundred square feet of living space—about the size of a spacious one-bedroom apartment in contemporary Manhattan. Looking back, these homes seem not merely pokey, but chilly and underfurnished. At the time, there were long waiting lists: owned and managed by local authorities, such houses were intensely desirable.
The air over the capital resembled a bad day in Beijing; coal was the fuel of choice—cheap, abundant, and domestically produced. Smog was a perennial hazard: I recall leaning out of the car window, my face enveloped in a dense yellow haze, instructing my father on his distance from the curb—you could literally not see beyond an arm’s length ahead of you and the smell was awful. But everyone “muddled through together”: Dunkirk and the Blitz were freely invoked without a hint of irony to illustrate a sense of national grit and Londoners’ capacity to “take it”—first Hitler, now this.
I grew up at least as familiar with World War I as with the one that had just ended. Veterans, memorials, and invocations abounded; but the ostentatious patriotism of contemporary American bellicosity was altogether absent. War, too, was austere: I had two uncles who fought with Montgomery’s Eighth Army from Africa through Italy and there was nothing nostalgic or triumphalist in their accounts of shortage, error, and incompetence. Arrogant music hall evocations of empire—
We don’t want to fight them, but by Jingo if we do,We’ve got the ships, we’ve got the men, we’ve got the money too!
—had been replaced by the wartime radio lament of Vera Lynn: We’ll meet again, don’t know where, don’t know when. Even in the afterglow of victory, things would never be the same.
Reiterated references to the recent past established a bridge between my parents’ generation and my own. The world of the 1930s was with us still: George Orwell’s Road to Wigan Pier, J.B. Priestley’s Angel Pavement, and Arnold Bennett’s The Grim Smile of the Five Towns all spoke to an England very much present. Wherever you looked, there were affectionate allusions to imperial glory—India was “lost” a few months after I was born. Biscuit tins, pencil holders, schoolbooks, and cinema newsreels reminded us of who we were and what we had achieved. “We” is no mere grammatical convention: when Humphrey Jennings produced a documentary to celebrate the 1951 Festival of Britain, he called it Family Portrait. The family might have fallen on hard times, but we were all in it together.
It was this “togetherness” that made tolerable the characteristic shortages and grayness of postwar Britain. Of course, we weren’t really a family: if we were, then the wrong members—as Orwell had once noted—were still in charge. All the same, since the war the rich kept a prudently low profile. There was little evidence in those years of conspicuous consumption. Everyone looked the same and dressed in the same materials: worsted, flannel, or corduroy. People came in modest colors—brown, beige, gray—and lived remarkably similar lives. We schoolchildren accepted uniforms all the more readily because our parents too appeared in sartorial lockstep. In April 1947, the ever-dyspeptic Cyril Connolly wrote of our “drab clothes, our ration books and murder stories…. London [is] now the largest, saddest and dirtiest of great cities.”
Great Britain would eventually emerge from postwar penury—though with less panache and self-confidence than its European neighbors. For anyone whose memories go back no further than the later 1950s, “austerity” is an abstraction. Rationing and restrictions were gone, housing was available: the characteristic bleakness of postwar Britain was lifting. Even the smog was abating, now that coal had been replaced by electricity and cheap fuel oil.
Curiously, the escapist British cinema of the immediate postwar years—Spring in Park Lane (1948) or Maytime in Mayfair (1949), with Michael Wilding and Anna Neagle—had been replaced by hard-boiled “kitchen sink” dramas starring working-class lads played by Albert Finney or Alan Bates in gritty industrial settings: Saturday Night and Sunday Morning (1960) or A Kind of Loving (1962). But these films were set in the north, where austerity lingered. Watching them in London was like seeing one’s childhood played back across a time warp: in the south, by 1957, the Conservative Prime Minister Harold Macmillan could assure his listeners that most of them had “never had it so good.” He was right.
I don’t think I fully appreciated the impact of those early childhood years until quite recently. Looking back from our present vantage point, one sees more clearly the virtues of that bare-bones age. No one would welcome its return. But austerity was not just an economic condition: it aspired to a public ethic. Clement Attlee, the Labour prime minister from 1945 to 1951, had emerged—like Harry Truman—from the shadow of a charismatic war leader and embodied the reduced expectations of the age.
Churchill mockingly described him as a modest man “who has much to be modest about.” But it was Attlee who presided over the greatest age of reform in modern British history—comparable to the achievements of Lyndon Johnson two decades later but under far less auspicious circumstances. Like Truman, he lived and died parsimoniously—reaping scant material gain from a lifetime of public service. Attlee was an exemplary representative of the great age of middle-class Edwardian reformers: morally serious and a trifle austere. Who among our present leaders could make such a claim—or even understand it?
Moral seriousness in public life is like pornography: hard to define but you know it when you see it. It describes a coherence of intention and action, an ethic of political responsibility. All politics is the art of the possible. But art too has its ethic. If politicians were painters, with FDR as Titian and Churchill as Rubens, then Attlee would be the Vermeer of the profession: precise, restrained—and long undervalued. Bill Clinton might aspire to the heights of Salvador Dalí (and believe himself complimented by the comparison), Tony Blair to the standing—and cupidity—of Damien Hirst.
In the arts, moral seriousness speaks to an economy of form and aesthetic restraint: the world of The Bicycle Thief. I recently introduced our twelve-year-old son to François Truffaut’s 1959 classic Les Quatre Cents Coups (The 400 Blows). Of a generation raised on a diet of contemporary “message” cinema from The Day After Tomorrow through Avatar, he was stunned: “It’s spare. He does so much with so little.” Quite so. The wealth of resources we apply to entertainment serves only to shield us from the poverty of the product; likewise in politics, where ceaseless chatter and grandiloquent rhetoric mask a yawning emptiness.
The opposite of austerity is not prosperity but luxe et volupté. We have substituted endless commerce for public purpose, and expect no higher aspirations from our leaders. Sixty years after Churchill could offer only “blood, toil, tears and sweat,” our very own war president—notwithstanding the hyperventilated moralism of his rhetoric—could think of nothing more to ask of us in the wake of September 11, 2001, than to continue shopping. This impoverished view of community—the “togetherness” of consumption—is all we deserve from those who now govern us. If we want better rulers, we must learn to ask more from them and less for ourselves. A little austerity might be in order.

sabato 4 febbraio 2012

la politica dell'accetta

la politica dell'accetta è sempre ben accetta in un paese di cojoni come il nostro.
 Abbiamo avuto anni di tagli orizzontali, tagli da decespugliatore. Portavano via tutto, fiori e gramigna, facendo terra bruciata. Hanno ripulito i fossi fino all'ultimo tarassaco spuntato di nascosto... Solo prato all'inglese per i detentori del potere, quelli da noi eletti intendiamoci, il resto via.
Così tagli alla scuola dal nido all'università, senza senso, senza merito e senza risultati. Anzi con pessimi risultati: scuole senza insegnanti e imbottite di alunni, scuole senza aule, senza materiali e supporti didattici ma imbottite di autonomia.
Hanno salassato il sociale spostando i soldi sul lavoro ed il lavoro sulla formazione e la formazione sulla cassa integrazione e la cassa integrazione sulla mobilità e il tutto a carico della previdenza. Risultato? Non ci sono i soldi per la mia pensione perchè li hanno gia usati per pagare delle persone da licenziare, lasciate a marcire per anni in CIGS o CIGO.
E la sanità? Invece di decidere cosa curare, chi curare e chi deve pagare e chi no, hanno deciso di far pagare tutti: chi ha bisogno e chi no, chi può e chi no.
I disabili? Regaliamoli alla comunità sarà contenta, tornerà ad essere solidale e accogliente. Tradotto: famiglie arrangiatevi!
Il paesaggio? Chi se ne frega! Siamo il paese più bello del modo se cade un muro ce ne sono migliaia che crollano in piedi, ovunque. Meglio fare mostre stramilionarie in posti strafalsi.
e poi? I treni: via quegli inutili carrozoni che portano i lavoratori, gli studenti, i turisti... Solo meravigliosi carissimi treni veloci: milano-roma e poco più... Viva l'asse Padano/romano! Devi arrivare a budoia, san giorgio di nogaro, spoleto? Cazzi tuoi prendi la macchina e consuma.

Viva l'accetta e chi l'accetta

io no, e forse da qualche mese anche qualcun altro..

venerdì 3 febbraio 2012

la cattiva strada...

Il compenso di Celentano a Emergency e famiglie bisognose - Repubblica.it

che Celentano meriti o meno 750.000 € per il suo lavoro è irrilevante.
Che Sanremo guadagni tanto da potersi permettere un cachè di 750.000€ è auspicabile.
Che Sanremo sia un programma utile, interessante, o semplicemente bello è un'ipotesi.
Ma che Celentano versi malamente almeno una parte del suo compenso è certo.

Gli Italiani famosi si accompagnano ad altri noti Italiani, e Strada è un Italiano arcinoto all'estero, come in Italia. É talmente noto da essersi meritato la dedica di questa frase da Lutwack
Se hai Hitler di fronte a te, il pacifismo coopera con Hitler. Se hai uno Stalin, Stalin adorava i pacifisti, perché non resistevano. I Talebani adorano i pacifisti, perché non resistono. Questa è la realtà. Siamo in questo mondo.”
Strada riceverà, secondo l'elemosina celentiana, un paio di centomila €. Per i suoi ospedali. Quelli che curano tutti ma curano con più piacere i terroristi, i talebali, i lealisti libici e tanti altri. Anche la croce rossa cura tutti, anche la mezzaluna rossa, anche medici senza frontiere, anche... ma Strada li cura meglio e se qualcuno osa dire che magari, dopo averli curati,certi ceffi sarebbe meglio lasciarli alla giustizia, viene accusato di lesa maestà... di guerrafondaio. Perchè i pacifisti (quelli come strada) non guardano in faccia nessuno. Per esempio in Afganistan si trovano benissimo nelle zone talebane perchè metà della popolazione non possono guardarla in faccia perchè coperta dal Burqa e l'altra metà è meglio non chiedergli troppo di mostrare la faccia se non si vuol finire sparati. Ma tutto questo per Strada è pacifismo, è anti imperialismo.
Avete notato come sempre più le teste d'uovo che capiscono la gente siano sempre più vicini alla lega-pensiero (so che è un ardito sforzo intellettuale parlare di lega-pensiero) o Berlusca pensiero. Grillo pensa come Borghezio, Strada come Berlusconi (almeno sulla Libia e non mi par poco) e Celentano? Regala soldi ai sindaci eretici (più o meno): tosi, alemanno, de magistris, emiliano, zedda, renzi, pisapia.
Regala soldi... come berlusconi che faceva beneficenza alle povere immigrate marocchine, pardon egiziane e dalle parentele altolocate.

martedì 24 gennaio 2012

Grillo si schiera sulla cittadinanza "Senza senso darla ai figli di stranieri" - Repubblica.it

Grillo si schiera sulla cittadinanza "Senza senso darla ai figli di stranieri" - Repubblica.it

che meraviglia! più il Grillo parlante parla, più sono contento di aver, anni fa, contestato anche sonoramente il populista Grillo.
Per il movimento 5 stelle, e vorrei sapere chi è il copy probabilmente lo stesso di Forza Italia, casa, polo e Popolo della libertà, i cittadini non sono quelli che pagano le tasse e contribuiscono alla nostra sanità, previdenza, scuola, giustizia, difesa, politica estera ma quelli che sono figli di Italiani! Esattamente come il proto nazista Bossi ciò che conta è la stirpe, il sangue e aggiungerei il colore della pelle o dei capelli. Grillo e i suoi adepti sono nazisti almeno quanto Bossi, ed è un buon livello.
In un Italia che finalmente vede dei barlumi di liberismo e aggiungo di liberalismo, dopo almeno vent'anni di oscurantismo stalinista, corporativo, monopolista, statalista, mafioso giunge con perfetto tempismo il commento del ducetto ligure che aspira a sostituire il ducetto di Arcore, essendo entrambi di scuola comica e ricchi.
Per questi democratici, basta che la democrazia sia come dicono loro, il concetto di nessuna tassa senza rappresentanza (no taxation without representation) deve suonare come una bestemia, una blasfemia, un'orribile dogma liberale! Perchè mai chi paga le tasse dovrebbe avere il diritto di votare? Nel suo corpo scorre sangue italico? In questo caso, e mi raccomando gli si controlli prepuzio che non sia ebreo e o islamico, allora non solo può pagare le tasse ma può (e deve a sentir lega e amichetti nazisti) evadere.
Sarebbe da chiedersi perchè mai chi non ha il diritto di votare dovrebbe pagare le tasse? Perchè mai un lavoratore in Italia da anni con figli a scuola in Italia, deve pagare le tasse( se no fuori dai cojoni direbbero Grillo e Borghezio all'unisono) se non può nemmeno decidere l'amministrazione del proprio comune di residenza. Perchè le persone nate in Italia, e non per caso ma perchè figlie di persone stabilmente residenti in Italia e che quindi PAGANO LE TASSE, non sono italiane? Perchè hanno il sangue negro, slavo o giallo?
Perchè mai gli evasori totali purosangue italici possono votare (ed infatti ci siamo sciroppati venti anni di evasori al governo) e chi lavora in fabbrica, fa il medico, l'agricoltore, l'infermiere o il fisico nucleare e paga tutte le tasse no? Solo perchè si chiama Singh ed è nato a Milano? Perchè il Brambilla evasore totale nato a Milano può andare anche in parlamento?

Di cosa hanno paura? Che l'Italia cambi? Magari!

domenica 8 gennaio 2012

Riforma del pubblico impiego.


Se una vera rivoluzione liberale deve partire in Italia è bene che inizi dal mercato del lavoro pubblico.
Purtroppo i 15 anni di governo stalinista (e opposizione stalinista) hanno distrutto ogni velleità liberale, abbandonando il sistema economico e politico ad un ridicolo ometto con velleità illiberali e monopoliste (si parlo di berlusconi).

Alcune semplici proposte potrebbero liberare risorse importanti, aprire il mercato del pubblico impiego a lavoratori capaci e motivati (di qualsiasi età), legare il controllo politico all'efficienza dei risultati, creare concorrenza fra amministrazioni e fra movimenti politici.


1) Spoil Sistem obbligatorio per le figure dirigenziali del settore pubblico. Incarico fiduciario per tutti i quadri da parte del politico eletto per la durata del mandato elettorale.

2) Assunzione solo a tempo indeterminato, senza concorso, ma attraverso le normali pratiche di reclutamento previste nel privato, per i dipendenti senza mansioni dirigenziali.

3) Abolizione del valore legale del titolo di studio per l'assunzione di tutti i dipendenti e per il reclutamento dei consulenti.

4) Libertà di licenziamento, anche senza giusta causa, per tutti i dipendenti pubblici. Eliminazione dell'obbligo di reintegro e compensazione economica elevata per i licenziamenti ingiustificati.

5) Obbligo di utilizzo dei fondi dedicati (progetti finanziati da altri enti) per progetti diversi dall'ordinaria amministrazione. Utilizzo di agenzie e professionisti esterni solo in questi casi e a carico esclusivo dei finanziamenti dedicati.